Il Maione, poi scrive nel 1703: fà per arme tre montetti con tre piedi di cerque (querce) con le ghiande d’oro

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BREVI CENNI SUL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO, CIVILE E RELIGIOSO

Somma Vesuviana, la ridente cittadina alle falde del versante settentrionale del Vesuvio, che dista circa 15 km da Napoli, sorge nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio e rappresenta, per le peculiarità storiche e naturali del territorio, una delle città di spicco di tutta l’area vesuviana. Confina con i paesi di Sant’Anastasia, Brusciano, Ottaviano, Pomigliano e Marigliano.
La blasonatura dello stemma cittadino raffigura uno scudo sannitico in campo azzurro dove risalta al naturale un monte con tre cime sormontate da tre querce con ghiande d’oro. In araldica la corona turrita richiama il distintivo di Città; il campo azzurro simboleggia la fedeltà e la nobiltà d’animo; le tre querce secolari sono espressioni di forza e valore; le ghiande d’oro esprimono la potenza, il tricolle al naturale, infine, rappresenta la sua montagna.
Sotto lo scudo vi è una doppia fronda, unita da un nastro rosso; a destra (a sinistra di chi guarda) fronda di alloro fogliata al naturale, fruttifera di rosso e a sinistra (a destra di chi guarda) una fronda di quercia fogliata e ghiandifera al naturale.
Di questa terra, ricca di storia e di memorie, si sono interessati non solo studiosi locali nel corso dei secoli, come l’abate Domenico Maione e Augusto Vitolo Firrao e specialmente nel secolo scorso, Alberto Angrisani e Ciro Romano, ma anche diversi storici, come Candido Greco, Ernesto Pontieri, Giuseppe Galasso e Giuseppe Camodeca e scienziati e geologi, come Claudia Principe, Mauro Rosi, Roberto Santacroce e Alessandro Sbrana (cit. Enrico Di Lorenzo).

I PALAZZI NOBILIARI DI SOMMA VESUVIANA – clicca sopra

I SINDACI DI SOMMA VESUVIANA DAL 1861 AL 1944 – clicca sopra

ALBO DEI SINDACI E PRESIDENTI DEL CONSIGLIO DAL 1945 AL 2022 – clicca sopra

RESISTENZA E LIBERTÀ: PARTIGIANATO SOMMESE– clicca sopra

ALBO DEI CADUTI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE – clicca sopra

CADUTI E DISPERSI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – ATTI DEL MINISTERO DELLA DIFESA- clicca sopra

BROCHURE PRESENTATA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELLA SEZIONE ANPI DI SOMMA VESUVIANA- clicca sopra

Nel De officiis di Cicerone si narra del console romano Quinto Fabio Labeone (consolato 183 a.C.) che, inviato a dirimere le controversie territoriali tra Napoli e Nola, assegnò a Roma quel pezzo del territorio neutro fertilissimo alle falde del Vesuvio, dove poi sorgeranno i primi insediamenti romani e successivamente anche Somma. Il prof. Mimmo Parisi, nelle sue ricerche apparse su diverse riviste storiche, ha avanzato l’ipotesi che l’inviato dal Senato di Roma per dirimere la questione non poteva essere il console Quinto Fabio, impegnato in quell’anno nella guerra contro i Galli, ma il pretore (195 a.C.) Gaio Atinio Labeone. Quel territorio conteso si sviluppò rapidamente: il panorama incantevole, la salubrità dell’aria, la mitezza del clima, la lussureggiante vegetazione, la squisitezza dei suoi frutti, fecero di quell’insediamento una sorta di polo di delizie verso cui affluirono, nel corso dei secoli, regnanti, cortigiani, nobili e patrizi, uomini di cultura e borghesi del mondo intellettuale, agrario e commerciale, per regalarsi periodi di riposante villeggiatura (fonte G. Cocozza).

Nel V secolo – afferma il Dott. Domenico Russo – il territorio (comprendente attualmente Sant’Anastasia e Pollena Trocchia) costituiva l’estrema parte sud della città romana di Nola, confinante con Napoli. I siti abitativi certi nel I secolo, in particolare, erano: la cosiddetta Villa Augustea, la villa in località San Angelo al Carmine, la villa sotto il palazzo Colletta al Casamale, le ville montane del Palmentiello e dell’Abbadia. Nell’anno 536 dell’era volgare, il generale bizantino Flavio Belisario (500 circa – 565), dando speciali privilegi, ordinò che le famiglie di Somma e di altre città dovevano andare a ripopolare Napoli dopo l’assedio: Belisarius vero seduto a Papa Sylverio acriter increpatus cur tanta, et talia homicidia Neapoli perpetrasset […]colligens per diversas villas neapolitanae civitatis viros et mulieres domibus habitaturos immisit, idest Cumanos, Puteolanos, et alios plurimos Liburia degentes, et Playa, et Sola et Piscinula et Locotrocla et Summa, aliisque villis [Historia miscella di Landulfus Sagax (sec. 9 – 10) in Rerum Italicarum scriptores (1900 – 1975)]. Con la venuta dei Longobardi, nel 568 d.C., l’area vesuviana passò con alterne vicende tra i nuovi conquistatori e il ducato di Napoli, fino a quando – continua Russo – divenne oggetto di una particolare dipendenza che permetteva la coesistenza di proprietari indipendentemente dalla genia d’origine: ci riferiamo al patto di Arechi del 786 ed al Capitolare di Sicardo del 836. Il territorio, comprendente Somma e Sant’Anastasia, diventò una dipendenza dei Benedettini di S. Vincenzo al Volturno, a cui si aggiunsero altri religiosi dei conventi napoletani, anche di ortodossia greca come i basiliani, che portarono presumibilmente anche il culto della Santa Anastasia. A monte sorse, intanto, un primo vicus (villaggio) attorno alla chiesa inesistente di San Lorenzo nella località attuale di S. Maria delle Grazie a Castello. Tra l’XI ed XII secolo, il territorio sommese pervenne ai Normanni, intorno al 1076, quale dote di Gaitelgrima, figlia del principe di Salerno Guaimario, andata in sposa al normanno Giordano I. Dell’epoca rimane memoria del castello o arce in località Santa Maria a Castello. Sotto Federico II, con gli Svevi, a Somma, il castrum Summae venne dichiarato quale struttura difensiva excepta, cioè direttamente sotto la giurisdizione del re, per la sua rilevanza difensiva. E’ questo – spiega Russo – l’elemento che potrebbe aver determinato successivamente la nascita dell’Universitas civium locale. Alcuni documenti ci dimostrano, ancora, che nel 1268, Somma era divisa tra un’area feudale, forse appartenente agli Spinelli, e una indipendente amministrazione civica. A quel tempo, il Casamale non era considerato il quartiere per eccellenza, ma era diviso in quattro o cinque proprietà della famiglia omonima (Causamala) a cui il dominus del tempo aveva concesso la lottizzazione della grossa area subito a valle del sito principale, che gravitava intorno alla citata chiesa di San Lorenzo ai piedi del castello montano. Nel processo ai Proditores (1268 – 1269), infatti, non appare il toponimo Casamale, ma sono annoverati: Pirillanum, La Risina, Sancto Sosso, Pumpillianum, Trivio Campionis, Lupuczu, Riello, Lucriro de la dopna, Sanctu Johannes.

A proposito del toponimo Somma, il prof. Mimmo Parisi afferma che l’errore di tanti appassionati storici, è stato quello di interpretare l’aggettivo summa, nel nostro caso, con il significato di parte del territorio più alta, in contrapposizione, invece, a quella che potrebbe essere, invece, la parte più estrema.
L’uso dell’aggettivo latino summus, a, um, infatti, nel senso di estremo, ultimo, termine, è abbastanza frequente nelle fonti classiche e, pur tuttavia, spesso ha generato equivoci e clamorosi errori di traduzione come nel nostro caso.
Somma, quindi, geograficamente non era la località più alta, bensì l’estremità di quell’immenso territorio che comprendeva anche Napoli e Nola.
Conseguentemente se il toponimo Somma fa riferimento all’estremità e non all’altezza, quando, tra VII ed VIII secolo, ci fu la necessità di indicare con un altro nome la montagna che, ormai, si differenziava visibilmente dal vulcano – continua Parisi – dovette essere abbastanza logico indicarla con un nome, forse di quell’unico agglomerato urbano, che si stava formando sulle sue pendici, all’estremità e al limite del territorio che continuava ad essere ai confini delle due contendenti, di sempre, Napoli e Nola.

Numerosi sono, quindi, gli insediamenti di epoca romana rinvenuti nelle nostre zone; di notevole interesse architettonico è quello relativo ai ruderi della cosiddetta Villa di Augusto, individuata negli anni trenta in località Starza Regina. La villa si estende su una superficie presunta di circa 20.000 mq., prefigurando l’esistenza di un complesso costruttivo di rara grandezza e particolare pregio. Il nucleo architettonico portato alla luce risale agli inizi del II secolo d.C. e si articola su due livelli impreziositi da stucchi, statue, marmi, dipinti e tendaggi dei maggiori artisti dell’epoca. Attualmente gli scavi condotti riguardano un’area totale di circa 6000 mq di cui solo una parte di 2500 mq è stata eseguita, ma con risultati di grande importanza. Il ritrovamento di importanti siti archeologici romani inducono a pensare che patrizi romani, di alto rango, venissero a vivere pigre giornate luminose di sole e a guarire le loro infermità con l’aria buona del posto.

In epoca angioina Somma, insieme ad Aversa, Pozzuoli e Torre del Greco, era una delle città più importanti di Terra di Lavoro; nel 1320, infatti, Somma è la quarta città, dopo Napoli, nel giustizierato di Terra di Lavoro e Contado di Molise (una specie dell’attuale Provincia), per l’entità della tassazione di once 117.
Un primo documento scritto, che attribuisce alla Terra di Somma le qualità di luogo di svago e di cura, è un diploma di Carlo d’Angiò. Quando gli Angioini nel 1268 arrivarono a Somma, dopo aver sconfitto Corradino di Svevia, si accorsero che la località, dal punto di vista strategico militare, era una buona roccaforte. Gli eserciti, infatti, che arrivavano da est, dalle Puglie o risalivano dal sud – non dal lato costiero ma dal lato interno – dovevano passare per Somma.
La città era inoltre dotata di una grande protezione naturale: la montagna. L’arce normanno, a quota 450 slm, dove oggi insiste il Santuario di S. Maria a Castello, era una fortezza inespugnabile risalente ai primissimi secoli del secondo millennio, costruita sui detriti piroclastici dell’eruzione del Vesuvio del 472 d. C.. Già i Normanni – riferisce il Dott. Russo Domenico – quando nel 1140 conquistarono Napoli, si stabilirono con la loro cavalleria in quel castello. Oltre all’importanza strategica, la città si distingueva soprattutto per la sua preminenza economica. Carlo I, fra le prime disposizioni, chiese all’architetto francese a Pietro di Chorus di ristrutturare il castello di Somma per permettere ai suoi nipoti di irrobustirsi fisicamente nelle selve della montagna.
Un innamoramento quello degli Angioini, ma in realtà anche una scelta obbligata: Carlo I d’Angiò legherà la terra di Somma anche a livello feudale solo ed esclusivamente alla casa regnante. Quando poi deciderà di cedere Somma al marito di una sua nipote, i cittadini si rivolteranno e si rifiuteranno di essere infeudati, se non dalla casa regnante. Successivamente con Giovanna I, Giovanna II e re Roberto Somma Vesuviana divenne – continua Russo – la Versailles di quegli anni.

Ai tempi di Giovanna I d’Angiò vi erano numerosi nobili dei sedili di Napoli che possedevano feudi in Somma, tra questi ricordiamo: Landulphus Minutulus dictus Sclavus, Philippus de Ughot, Ioannes Caraczolus filius dom. Delfinae, Petrus et Ioannes Pignatellus e Iacobus de Costantio (Tutini, origine de’seggi, 132). Fin dall’epoca angioina, Somma Vesuviana appartenne soprattutto ai membri femminili della famiglia reale. In particolare ricordiamo: Maria d’Ungheria, moglie di re Carlo II d’Angiò, che governò Somma dal 1294 al 1323; Maria di Valois, moglie dell’erede al trono Carlo d’Angiò duca di Calabria nel 1333; la sopra citata regina Giovanna I d’Angiò a partire dal 1343 e, in periodo aragonese, Lucrezia d’ Alagno, favorita di re Alfonso, dal 1456. A Giovanna III il feudo di Somma fu assegnato nel 1485, a seguito della morte del precedente titolare, il cardinale Giovanni d’Aragona, figlio di prime nozze di Ferdinando I.
Starza Regina (R. D'Avino)

A Somma tra l’altro vi era una importante residenza reale, denominata Starza della Regina con riferimento alla regina Maria d’Ungheria, contornata da una tenuta agricola di oltre 500 moggia di terra, ove più volte soggiornò Giovanna III e la corte. Tra le tante feste ufficiali e cerimonie che vi si tennero, si ricorda quella relativa al matrimonio di Giovanna (IV). Il 28 agosto del 1496 si tenne a Somma il corteo d’onore aperto da musici seguiti da carri ove erano collocate confetture e dolci di ogni tipo. Somma donò vino aglianico, frutta di ogni specie, pollame e uova. Seguirono feste e banchetti per gli sposi Giovanna e Ferdinando. Nel cortile di rappresentanza i letterati di corte Giovanni Pontano e Jacopo Sannazzaro allietarono i sudditi e gli invitati (fonte Mario Gaglione).

Gonfalone della Città

Gonfalone della Città

Nella sua maestosità si erge ai piedi del Monte Somma il Castello d’Alagno o De Curtis di epoca aragonese. E’ a partire dal 1458 che la storia di questo castello si intreccia con quella della Terra di Somma. Purtroppo alcune notizie intorno al maniero sono state imprecise. Studi e documenti successivi hanno consentito poi di poter ricostruire la vera storia a partire da Donna Lucrezia d’Alagno fino ad arrivare ad oggi.
Leggendario e per certi versi romantico fu il primo incontro di Lucrezia (1439 – 1479) con il re Alfonso d’Aragona [1448 circa], quando la vide appena diciottenne casualmente in strada. Lo storico Giulio Cesare Capaccio (1552 – 1634) negli Elogia Illustrium mulierum et illustrium litteris del 1608 narra che le fanciulle napoletane durante la vigilia di San Giovanni solevano mettersi sull’uscio di casa e chiedere la strenna ai passanti. Lucrezia, per l’occasione, toccò di chiederla addirittura al re e, ricevendo una borsa piena di monete alfonsini, presane una sola, restituì le restanti, dicendo maliziosamente che un solo Alfonso le bastava! A questo episodio sarebbe legato il loro primo incontro. Essendo costei di aspetto bellissimo, il re si appassionerà a tal punto che la donna eserciterà, successivamente, su di lui un forte dominio da far dire a Niccolò della Tuccia (1400 – 1474 ca.), cronista contemporaneo: in parlare con essa il re ne prendeva tanta vaghezza. Quantum rex proceres, quantum sol sydera vincit. Tantum Campanas superat Lucretia Nymphas.

In quel periodo, l’amante di re Alfonso prese dimora nel quartiere Borgo dell’odierna città di Torre Del Greco in una zona non lontana dal castello aragonese. Sembra che i rapporti tra i due rimanessero, inizialmente, esclusivamente intellettuali, ma poi l’amore fu totale, a discapito della vera moglie.
Donna Lucrezia, figlia di Messer Cola e di Covella Toraldo, infatti, si arricchirà considerevolmente per conto del sovrano aragonese: difatti, nel giro di qualche anno, la sua ascesa la porterà ad entrare in possesso di diversi feudi del Regno: San Marzano nel 1453, comprato da Petraccone Caracciolo, Conte di Brienza; Caiazzo, acquistato dal milite Giovanni de Torellas per ducati 15.000 nello stesso anno; Somma, vendutogli nel 1456 dal fratello Ugone per 12.000 ducati. Col crescere della sua fama, la donna aumentò non solo il prestigio personale, ma anche la potenza politica, le ricchezze e gli incarichi di rango per sé e per i componenti della sua famiglia. Nel 1456, infatti, Re Alfonso concesse l’assenso a Lucrezia d’Alagno super empcione terrae Summae et casalium, come ci viene attestato dallo storico Alberto Angrisani, riprendendo la notizia a pagina 175 dei Quinternioni di Terra di Lavoro, repertorio I.
Nel 1458, subito dopo la morte di re Alfonso, Lucrezia venne a risiedere a Somma e fece costruire un castello in prossimità delle mura, e propriamente vicino alla porta della montagna, poiché quello sito in alto sovra una balza della montagna era di disagevole accesso, come riferisce l’ambasciatore milanese Messer Antonio da Trezzo (Trezzo, ca. 1420 – 1478 ca., Napoli) nelle sue Lettere al Duca di Milano, conservate presso l’Archivio storico della Provincia napoletana.
A maggio del 1459, Donna Lucrezia fece recapitare, da Somma, diecimila ducati a re Ferrante I a Napoli (Lettera di Lucrezia in Napoli Nobilissima, Anno V, pag. 118, citata da A. Angrisani). L’anno seguente, il 14 ottobre, re Ferrante giunse a Somma per visitare e confortare Madonna Lucrezia e, soprattutto, per convincerla a seguirlo a Napoli (Lettere di Messer Antonio da Trezzo). Il re, purtroppo, non riuscì a convincerla e, l’8 gennaio del 1461, occupò Somma per costringerla a seguirlo. Il 3 febbraio del 1461, Ferrante strinse, addirittura, d’assedio il castello montano, dove la bella castellana si era rifugiata con i suoi tesori. Donna Lucrezia seppe da più parti che il Re veniva a toglierla ogni cosa e, spaventata, finì col non fidarsi più neppure delle mura del suo castello. Per ben venticinque giorni, lasciando un presidio di fanti nella città murata: se ne parte (Ferrante) a la fine vegiendomi posser – neppure per forza – avermi in potere, mise a sacco il castello della terra e se ne andò (Lettera di Lucrezia d’Alagno al Duca di Milano, ex castro nostro Summae – die XX Mensii MartiJ – in Napoli Nobilissima, Anno V, pag. 118, cit. A. Angrisani).
Il 3 aprile del 1461, Lucrezia, stanca ormai degli attacchi, lasciò Somma e si rifugiò a Nola, cogliendo l’occasione che il condottiero e capitano di ventura Giacomo Piccinino, chiamato dall’Abruzzo dagli Angioini, era giunto a Somma diretto a Nola (Lettera di Messer Antonio da Trezzo, cit. A. Angrisani, 1928).

CASTELLO D’ALAGNO

Il compianto prof. Raffaele D’Avino (1939 – 2007) afferma che re Ferrante riconosciuta la validità difensiva e la posizione strategica della Terra di Somma, si preoccupò di aumentare la sua imprendibilità, svolgendovi urgenti lavori di ristrutturazione alle sue fortificazioni, tra cui le mura che contornavano il quartiere Casamale. Comunque, Sua Maestà, ebbe la precauzione di non concedere più la suddetta terra in feudo, né di alienarla ad altri. Così fu quando nacque il figlio Giovanni d’Aragona, cardinale, e lo stesso avvenne alla sua morte, quando Somma, ed ovviamente il suo castello, passò dapprima sotto la reggenza di Giovanna III d’Aragona e, successivamente, seppur per brevissimo tempo alla figlia Giovanna IV. La terra ed il castello passarono, poi, al re di Spagna Carlo, duca di Borgogna, e al suo funzionario marchese Guglielmo de Croy (1458 – 1521).
Nel 1521, dopo la morte del marchese, Somma, con le sue pertinenze, fu acquistata dal conte Alfonso da San Severino di Bisignano (+1539 ca.) e consegnata al condottiero francese Odet de Foix (1485 – 1528), maresciallo di Francesco I di Francia e visconte di Lautrec. Passò, poi, nelle mani della moglie di Giacomo Sanseverino (+ avvelenato col vino il 5 novembre 1516), Maria Aldonza Beltrano figlia di Alfonso Conte di Mesagne, che fu investita di regia governatrice di Somma fino al 1531, allorquando la terra fu venduta a Don Fernando Folch de Cardona (1522 – 1571), che sposò Beatriz Fernandez de Cordoba, Duchessa di Sessa.
In un documento del 1545 e precisamente nelle concessioni che il citato D. Fernando Folch de Cardona aveva concesso ai cittadini di Somma, il castello appare in pessime condizioni. Da Don Fernando la terra passò ai figli per poi essere ceduta da Don Antonio di Cardona il 4 maggio 1582 a Giovan Geronimo d’Afflitto (+1591), conte di Trivento. In quest’epoca, propriamente nel 1586, vi fu il riscatto della feudalità da parte degli abitanti del luogo. Il castello, comunque, si trovava in cattive condizioni strutturali, quando nel 1691 il procuratore fiscale barone Lucas Antonius de Curtis (1627 – 1706) lo acquistò, sebbene in enfiteusi, per la modica somma di 25 ducati l’anno, stavolta, da Don Felice Fernandez di Cordova e Cardona Folch de Aragona, duca di Sessa e Somma. Si trattava di Felice I Cardona del ramo di Atessa in Abruzzo. La famiglia dei nobili Cardona fu ascritta alla nobiltà dei sedili di Porto e di Nilo nel 1548. La famiglia de Curtis di Somma, invece, era originaria della città di Cava de Tirreni. La concessione in enfiteusi prevedeva le condizioni di miglioramento del fondo censito, pena la risoluzione dell’atto notarile.

L’atto del 23 ottobre del 1691 per notar Francesco Aniello Joannoccaro di Napoli tra Don Felice I Cardona, duca di Sessa e Somma, e Luca Antonio de Curtis fu confermato da un regio assenso del 17 marzo 1699 del vicerè spagnolo Don Ludovico de la Zerda. Nel preambolo – afferma Camillo de Curtis – il castello veniva definito domum dirutam, consistente in una sola sala con altre stanze e 4 torrincelli attorno e con un territorio intorno di tre moggia. L’intero giardino era costituito a 3 piante di olive, 1 di pero, 1 di fichi e tre di uva. Addirittura la casa era adoperata per ricovero di capre ed altri animali.

Nel Catasto Onciario (1744 – 1751) della Terra di Somma a pag. 982r si legge: Ill(lustrissimo) Marc(hes)e De Curtis di Napoli. Possiede una casa pretesa feudale palaziata consistente in più e diversi membri inf(erio)ri e sup(erio)ri, con sue comodità con un poco di ter(rito)rio attorno, seu giardino nel luogo detto il Castello giusta li beni di …p(er) proprio uso. Non è presente la valutazione in once in quanto non ancora riscattato. Nel 1800, il castello fu totalmente rifatto, ma ne conservò la parte dell’ antica struttura muraria.
Il censo fu riscattato nel 1859 dal marchese Pasquale de Curtis (1787 – 1870), liquidando una non altrimenti specificata baronessa d’Ambrosio, quasi sicuramente la moglie di Don Paolo d’Ambrosio, fratello del Generale Angelo (1774 – 1822). Il castello, infatti, prima della vendita a Luca Antonio De Curtis, come abbiamo affermato precedentemente, era una appendice del patrimonio feudale della città; in altre parole – spiega lo storico locale Dott. Domenico Russo – tutto era legato alle antiche proprietà di Somma dei Cardona duca di Sessa. Il Generale Angelo d’Ambrosio, avendo acquistato la Starza della Regina, antica proprietà feudale dei Cardona, aveva titolarità dei censi gravanti su case, palazzi, terre e selve già feudali. A riguardo, anche il censo annuo di 25 ducati del castello aveva seguito le sorti degli altri. Altri documenti del 1830 attestano, poi, il passaggio a Don Paolo d’Ambrosio, fratello del generale, come riferisce il marchese Camillo De Curtis (1922 – 2007).

Il 10 settembre del 1904 si tenne nel castello una splendida festa per rendere omaggio e felicitazioni devote alla castellana, marchesa Maria, di cui ricorreva l’onomastico. Questa cronaca, riportata dal prof. Domenico Parisi, risalta la vita sociale dell’eletta colonia dei villeggianti sommesi. L’affabilissima donna circondò tutti della cortesia tradizionale della sua casa e cantò con alto sentimento. Cantò anche la signorina Astuto, pur essa ammirata con convinzione. Quindi il barone Cesare Colletta invitò tutti a ballare dirigendo, egli stesso, un’animata sauterie. Nelle splendide sale era una esaltazione di bellezze umane fra le quali la marchesa Maria spiccava in una elegantissima toilette. Fra gli intervenuti formavano stupendo bouquet: le signore Caprile, le signorine Astuto, la signorina Agata Napolitani, la signorina Mercedes Schioppa, la signorina Enrichetta Raimondi, le signorine Rachele e Rosa De Martino, le signorine Ada, Emma e Renata Santucci, la Baronessa Colletta De Mellis, la signorina Maria con la signora Bianca Colletta ed altre. Facevano da coro i signori Raimondi, Alfano, De Notaris, Stroncone, Torres, Mazzucca, Sersale, Passante, Iossa, Rossi, Napolitani, Giampietri, Vitolo, Lenci e Casaburi. I divertimenti di Somma non potevano chiudersi con festa più bella per la quale fa l’elogio alla marchesa Maria la soddisfazione che lasciò in ognuno dei partecipanti!

I De Curtis, comunque, tennero il maniero fino al 1951, quando il marchese Camillo lo vendette al medico Nicola Virnicchi (1878 – 1953) di Montella con atto n°733 dell’8 maggio di quell’anno. Il dottor Nicola Pietro Maria Virnicchi, vedovo, sposò nel 1943, in seconde nozze, la sommese Rosa Improta, da cui nacquero ben cinque figli. Figlio del medico Luigi e di Donna Errichetta Di Stefano, conobbe Rosa Improta nella vecchia scuola di ricamo dell’Istituto Cianciulli, presso il convento del Carmine di Somma.
Il maniero – dopo la morte del dottore Virnicchi, avvenuta nel 1953 – passò ai cinque figli. Il definitivo passaggio del castello, infine, dai fratelli Virnicchi alla Casa Municipale avvenne nel 1998.

Un’altra meraviglia di Somma Vesuviana è la muratura aragonese. A tal riguardo, nella risposta del sottosegretario ai Beni Culturali all’onorevole Teresa Manzo del 2020, si legge: la monumentale cinta muraria aragonese costituisce un unicum nel territorio campano. L’ubicazione dell’antica cittadina di Somma Vesuviana, posta tra i 180 e 220 metri di quota sul livello del mare, non presenta una orografia naturale atta ad erigere cortine difensive di notevole rilievo, ma dovette certamente essere dotata di una struttura muraria il cui dimensionamento, reale consistenza ed esatta ubicazione, oggi è difficile rilevare, considerate le notizie e gli esigui documenti in merito.
Certamente il percorso non doveva differire da quello attuale; perché, allorquando nel 1497 ne fu ordinato il rifacimento da parte di Ferrante D’Aragona, non si parlò affatto di ampliamento, ma – come riferisce Giovan Battista Pacichelli nella sua opera Regno di Napoli del 1703 – le mura furono solo migliorate con moderno disegno per rispondere ai nuovi criteri di funzionalità bellica. Il tracciato aragonese che cinge il quartiere meridionale di Casamale è lungo circa 1300 metri e, attualmente, ancora visibile interamente in alcuni suoi tratti; presenta un’altezza media che si aggira intorno a 7-8 metri su alcuni tratti ed uno spessore che va da un metro a un metro e mezzo. La sua consistenza risulta, complessivamente, ancora buona, perché formata da grossi blocchi di pietra vesuviana non squadrati e da elementi misti a residui di altre costruzioni.
Negli angoli e su alcuni tratti delle cortine murarie si riscontra la presenza alternata di antiche torrette in esse inglobate e nelle parti più riparate della muratura, specialmente sui lati Est ed Ovest, rivolti rispettivamente verso Nola e Napoli, sono presenti delle fenditure e bocche circolari sagomate a strambo al loro interno, oggi tutte tamponate o chiuse. La parte superiore delle mura, composta originariamente da camminamento e merlature, è andata del tutto perduta, ma come si può osservare, oltre alla funzione di difesa esse fungevano anche da murature di contenimento e, laddove l’edilizia è più fitta, costituivano le mura perimetrali di ambienti tuttora abitati, pertanto la proprietà delle mura è frazionata tra numerosi fondi e abitazioni private. Nelle mura della città si aprivano quattro porte: S.Pietro a Nord, Porta Castello a Sud e Porta tutti i Santi a Est. In origine, le mura ebbero almeno nella parte rivolta alla pianura, un profondo fossato ed Est ed Ovest erano isolate rispettivamente dagli alvei di torrenti Fosso dei Leoni e Cavone.
…si evince che le mura aragonesi attualmente presenti non sono compromesse da spanciamenti o lesioni ne possono far temere il collasso, ma è da evidenziare che la cortina, nonostante tutte le vicissitudini subite nel tempo, quali eruzioni, terremoti, alluvioni e manomissioni avvenute negli ultimi tempi, dall’epoca della sua costruzione non è mai stata oggetto di un intervento programmato di ripristino e valorizzazione. Il Comune, riconoscendo nelle mura un patrimonio culturale pubblico della cittadina vesuviana, ha sempre attivato, per quanto di competenza, misure di tutela, ingiungendo ai proprietari di provvedere alla conservazione del bene. Negli ultimi anni si è registrata una maggior attenzione al Borgo di Casamale e alle sue mura da parte di Associazioni culturali, cittadini e storici locali, che hanno promosso manifestazioni incontri con storici e archeologi onde istituire un riferimento organizzativo per la definizione di programmi di ampio respiro e di collegamento con le Amministrazioni al fine di convogliare l’attenzione sul bene per la sua valorizzazione.

In vari diplomi angioini si incontrano nomi di famiglie ebraiche abitanti in Somma nel Duecento e Trecento. Lo storico degli ebrei del Mezzogiorno, Dr. Nicola Ferorelli (Gli Ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, Torino, 1915), esplicitamente afferma che in Somma nel sec. XV vi era una fiorente colonia ebraica nell’antichissimo quartiere Giudecca.
Riguardo alla Giudecca, il prof. Domenico Parisi riferisce che in epoca angioina, Somma era considerata, come abbiamo già riferito, la quarta città più importante di Terra di Lavoro.
L’unico sito fortificato era il quartiere Casamale, che, però, era difeso solo da terrapieni, fossati e palizzate. Per questo motivo nel 1350, fu facilmente conquistata dagli ungheresi. Quando re Luigi di Taranto (Luigi d’Angiò), nel 1353, decise di militarizzare e rafforzare le vie d’accesso alla capitale del Regno, il Casamale venne cinto da mura, lasciando, però, fuori quella parte, già allora, abitata dalla numerosa comunità ebraica: in effetti quella zona, già nel 1320, era conosciuta come borgo Piczuli, da cui deriva l’attuale strada Piccioli in parte inglobata nella Giudecca. Quando, poi, Re Ferrante d’Aragona mise mano al rifacimento delle mura, il quartiere assorbì anche quello ebraico.
Presumo – spiega il prof. Domenico Parisi – che a quell’epoca risalga sia la costruzione di Porta Piccioli e sia l’apertura dell’ attuale vico del Console, vico Cuonzolo, per consentire al capo della comunità un più facile e breve arrivo nella zona Porta Terra e in città.

Il 4 maggio del 1582, Don Antonio de Cardona, duca di Sessa e conte d’Alvito, vendette al conte di Trivento, Giovan Geronimo d’Afflitto, la terra di Somma ed i suoi casali per 112.000 ducati. Don Giovanni Girolamo (+ 9 – 3- 1591), patrizio napoletano, era 1° Duca di Castel di Sangro dal 18 – 9 – 1587, 6° Conte di Trivento, Signore di Barrea, Villetta, Scontrone, Sant’Angelo al Pesco, Pizzoferrato, Pesco Pignataro, la Rocca, Sassano ed Episcopo. Oltre il feudo di Somma, comprò quello di Ortona, Collecorvino, Pesco, Corvara, Mosellara, Torre dei Passeri, Carpineto, Brittoli, Castiglione e Cellare. Sposò nel 1578 Donna Cornelia de Lannoy, figlia di Don Giorgio, 2° duca di Boiano, e di Donna Giulia Diaz Carlon dei Conti di Alife. Lo stesso anno, l’Università di Somma fece ricorso al vicerè don Pedro Téllez Giron (1574 – 1624), 3° duca di Osuna, per entrare a far parte del Regio Demanio. Il vicerè autorizzò l’Università a riscattarsi. Il 3 ottobre del 1586, con atto del notaio Califati, il conte di Trivento firmò, alla presenza del procuratore dei sindaci di Somma, il definitivo istrumento di riscatto. Forse per questo motivo o anche perché, probabilmente, le condizioni economiche della città non si rivelarono all’altezza, in quello stesso anno la città rivendette allo stesso conte di Trivento tutti i suoi corpi feudali (ASN, Cedolari,1, f.69 v.). Nel 1591, Donna Cornelia de Lannoy, vedova del conte D’Afflitto, cedette Somma e i suoi casali a Camillo Caracciolo, principe di Avellino il quale, nel 1596 lo donò ad Antonio de Cardona y Cordoba (ASN, Cedolari,1, f.69 v.). Diversi documenti dell’Archivio Storico, Cedolari, Relevi ed altro (ASN, Spoglio delle significatorie dei relevi, 17, ff. 35,256 v.366; ASN, Cedolari,1, f.223.) testimoniano che la città di Somma è rimasta comunque infeudata ai de Cardona fino al XVII sec. Quindi i dati forniti dalla documentazione feudale – riferisce il prof. Domenico Parisi – non coincidono con quanto afferma Giustiniani, secondo il quale dal 1586, dopo essere ritornati in demanio, la città e i suoi casali non sarebbero più stati infeudati. Tale discrepanza, che lascia quanto mai perplessi, risultava già in Domenico Maione e, purtroppo, è stata continuamente ripresa e mai aggiornata.
Secondo quanto narra una inedita cronaca del tempo, tramandata da un appartenente della famiglia Figliola, il 3 ottobre 1586 nell’attuale Largo Portaterra il Capitano della Terra di Somma consegnò le chiavi della città al governatore e ai tre sindaci della città, simbolo dell’avvenuta liberazione dal servaggio feudale per virtù e sacrificio del popolo che raccolse i sopracitati ducati per liberarsi dal feudatario.

Tre anni dopo, nel 1589, Giovan Vincenzo Grasso e Grandonio Piacente dettarono le nuove regole per il governo locale (Universitas civium).
Questa struttura amministrativa rimase invariata dall’epoca del riscatto della feudalità fino all’arrivo di Giuseppe Bonaparte il 30 marzo 1806; infatti, con la legge n° 131 dell’8 agosto 1806, il Parlamento Cittadino fu sostituito con un nuovo organo collegiale denominato Decurionato, composto di 22 proprietari locali, che possedevano una determinata rendita e scelti dalla lista degli eleggibili. La nuova struttura prevedeva la soppressione della carica del Regio Governatore e al posto dei tre Sindaci un solo Sindaco, che, oltre ad essere il legale rappresentante della cittadinanza, amministrava gli affari comunali coadiuvato da altri due amministratori chiamati 1° e 2° Eletto.
Con l’Unità d’Italia l’architettura amministrativa del governo locale cambiò nuovamente assetto. La rappresentanza cittadina, stavolta, prese il nome di Consiglio Comunale, i componenti – venti all’epoca – venivano eletti da un ridotto numero di cittadini, iscritti nelle liste elettorali in base al criterio censuario e culturale. Il Sindaco, invece, amministrava il paese affiancato da un nuovo organo esecutivo denominato Giunta Municipale.

OMAGGIO A SOMMA VESUVIANA

Gli antichi quartieri della città, Casamale seu Terra, Margherita e Prigliano avevano avuto fino all’inizio dell’Ottocento anche una funzione amministrativa, nel senso che essi eleggevano i 40 deputati dell’Università (governo locale) ripartendoli tra loro rispettivamente in 20 Casamale, 10 Margarita e 10 Prigliano. Ai quartieri si aggiungevano, già dal 1326, gli antichi Casali che a quel tempo erano gli attuali Comuni di Sant’Anastasia, Pollena Trocchia e Massa (di Somma). Appartenevano amministrativamente a Somma anche il Casale di Pacciano, attuale frazione della Città di Pomigliano d’Arco e il quartiere di Napoli, Ponticello (Ponticelli in seguito) come attesta un altro documento della cancelleria angioina (fonte Domenico Russo). Riguardo a Ponticelli, il Dott. Luigi Verolino ha affrontato tale argomento nel suo volume Storia di Ponticelli, attestando che si trattava di una feudalità parziale e relativa ad una singola masseria, data l’enorme estensione territoriale di Ponticelli che arrivava fino a Sant’Anastasia, concludendo che il casale di Ponticelli non era mai appartenuto al territorio Somma.
Il prof. Domenico Parisi nella sua inedita opera Somma, notizie diverse ci chiarisce, invece, che di Ponticelli ce n’erano due: Ponticelli Maggiore e Ponticelli Minore. Quest’ultima, almeno fino al 1353, dipendette da Somma fino ad una reale unificazione del casale avvenuta già nel 1497, come riferisce lo storico del ‘700 Antonio Chiarito.

Tra gli storici sommesi ricordiamo l’abate Domenico Maione, che nel 1703 pubblicò la sua Breve descrizione della regia città di Somma, Napoli, per Antonio Solofrano, con una tavola in incisione lignea rappresentante Somma in prospettiva, molto originale e curiosa. Il Reverendo Maione, utroque iure, teologo e protonotario apostolico, fu un minuto ricercatore di notizie di Somma.

Somma e Contorni: Tavola del XVII sec. conservata nell'Archivio di Stato di Napoli

Somma e contorni: Tavola del XVII sec.conservata nell’Archivio di Stato di Napoli


Il Barone Augusto Vitolo Firrao (1848 – 1917) fu un appassionato raccoglitore delle patrie memorie. Ha fatto opera meritoria, pubblicando nel 1887 un libro sulla nobiltà sommese dal titolo “La città di Somma Vesuviana illustrata nelle sue famiglie nobili, con altre notizie storico – araldiche” e gli statuti della confraternita nobiliare, detta della Morte e Pietà, istituita nel 1650 nell’insigne Collegiata.

Il quartiere denominato il Casamale, come traslazione della famiglia Causamala o Malo, è presente a Somma sicuramente – come abbiamo già sottolineato sopra – già nel 1326 come aggregazione urbana insieme agli altri quartieri Margarita e Prigliano. Lo storico locale Domenico Russo ritiene che nel 1253, quasi un secolo prima che venga attestata l’esistenza del quartiere Casamale, esistono già documenti che attestano l’esistenza di un toponimo, il borgo o lo burgo, che corrisponde all’area intorno alla Chiesa di San Giorgio Martire, insieme a quelle di Santa Croce e di San Michele Arcangelo, che andranno a formare il quartiere Prigliano. Nel 1011 compare un documento che attesta la sola presenza sul territorio della Famiglia Causamala e non del quartiere. Russo conferma, inoltre, che il Casamale nel XIII secolo non era affatto ritenuto dai contemporanei quale sinonimo della Città di Somma. E’ facile che anteriormente a questa data, il primo nucleo alto medievale era situato in prossimità della antica parrocchia di San Lorenzo, ora inesistente, nella località dove attualmente insiste via Santa Maria delle Grazie a Castello, ma non si esclude che ancor più precedentemente un piccolo insediamento possa essersi formato intorno alla rocca o arce normanna, di cui oggi possiamo intravedere qualche residuo murario al di sotto del Santuario di Santa Maria a Castello. Il quartiere Casamale si caratterizza al suo interno per l’articolata rete di vicoli stretti e per gli edifici a cortina in pietra lavica; degni di nota sono il portale durazzesco – catalano del Palazzo Secondulfo (XV secolo), il Palazzo Sirico (XV e XVII secolo), il Palazzo Orsini e Colletta (XV e XVII secolo), la Chiesa delle Alcantarine o di Gesù Bambino (XVII secolo), la Chiesa di San Pietro di leggendaria memoria e numerosi altri caseggiati caratterizzati da elementi architettonici dei secoli scorsi. Famosa anche per le sue quattro porte: Porta della Terra, Porta Piccioli, Porta del Castello e Porta Formosi. Quest’ultima porta prendeva il nome da un’antica famiglia estintasi nel Seicento, attualmente esiste ancora l’apertura, ma si è persa la parte muraria.

CRIPTA DELL’ARCICONFRATERNITA PIO LAICAL MONTE DELLA MORTE E PIETA’

Di grande impatto, per l’importanza dell’aspetto, sono i palazzi costruiti tra il cinquecento e il settecento, che sorgono sull’antica piazza del borgo e su via Casaraia come Palazzo Giusso, Palazzo Mormile Duca di Campochiaro, la Certosa di San Martino (Palazzo Principe di Gerace) e Palazzo Filangieri – De Felice (poi Alfano de Notaris). Il palazzo della Resina con il suo circondato è forse la più rappresentativa e meglio conservata, nonostante il frazionamento della proprietà, fra le masserie di Somma. Insediamento antichissimo, per essere sorto al fianco delle chiese, in origine forse benedettine, di S. Maria del Pozzo, deve il suo aspetto attuale, probabilmente a Don Marcello Carafa, che qui nacque e probabilmente vi morì, in qualità di Reggente della Vicaria.
Fuori dalle mura della cittadina si scorgono le monumentali opere erette o ristrutturate dagli Angioini (l’Arx Summae, il Convento e Chiesa di San Domenico o San Giuseppe, la Starza Regina e la Masseria di Madama Fileppa), dagli Aragonesi (le Mura del Borgo medioevale e il Convento e la Chiesa di S.Maria del Pozzo) e da famiglie nobili (Caracciolo, Carafa, Pappacoda, Minutolo, Mormile, Filangieri, Cito, Filomarino, de Gennaro, Vitolo e così via) trasferitesi nella cittadina a seguito dei Reali (la Masseria Resina, la Masseria del Duca di Salza, e la Masseria Malatesta).

Un discorso a parte merita la Chiesa di San Domenico e la sua istituzione. Il Dott. Mimmo Russo ci riferisce nelle sue approfondite indagini storiche che tutti ancora oggi scimmiottano una citazione dello storico di Somma, Alberto Angrisani, che nel 1928 scrisse: 1294 – Re Carlo II fa edificare la chiesa ed il convento di San Domenico (reg. ang. 1294 M,f 111).

Complesso monumentale San Domenico

In realtà il documento citato sopra ci chiarisce solo della donazione ai Padri Domenicani a Somma della masseria del Campo Dopnico. Saremmo quindi rimasti a questa datazione se lo storico Giorgio Cocozza nel 1997 non avesse trovato nell’Archivio di Stato di Napoli e precisamente nella sezione Monasteri Soppressi, tra le carte del Convento di Somma là conservate, un appunto del 1590 dove è scritto che già intorno al Mille esisteva un Convento dei Benedettini con la chiesa annessa intitolata a Sant’Onofrio (ASN, Monasteri soppressi, vol. 993,f 409). Successivamente, nel 1292, Papa Nicola IV concesse il convento antichissimo ai Domenicani e pochi anni dopo Carlo II donò la masseria del campo Dopnico allo stesso ordine che ristrutturò di fatto quell’insediamento religioso già esistente, probabilmente con l’intitolazione a Santa Maria Maddalena. E’ poi noto che Carlo II d’Angiò, catturato dagli Aragonesi e dai Siciliani, per grazia ricevuta dalla liberazione fece voto di costruire dodici conventi dedicati a S. Maria Maddalena. Recentemente come è stato riportato dal Padre Domenicano Gerardo Cioffari nel 1993, molte di queste dedicazioni erano solo delle ristrutturazioni. Comunque l’attuale campanile – come riferisce Domenico Russo – non è angioino e fu completamente rifatto nel 1466 da un architetto nell’età aragonese, tale Parmezio Marinis, a seguito di un devastante terremoto di qualche anno prima.

Il nobile Valerio Mormile (+ tra il 1600 – 25 giugno 1601), figlio di Giovan Luigi e Sarra (Sara) Moccia, commissionò al pittore Decio Tramontano (nato probabilmente a Brusciano e morto nel 1608 circa) la realizzazione di una icona del SS. Rosario, in sostituzione di una tela deteriorata, per la cappella omonima nella chiesa di San Domenico (cappella esistente nel 1591, cit. F. Migliaccio in Notizie inedite). Il prezzo concordato fu di complessivi 60 ducati, da versare in acconti in base all’avanzamento del lavoro. Quella cona doveva essere realizzata secondo il disegno stabilito dal Mormile e sottoscritto dal pittore. Valerio, purtroppo, venne a mancare ai vivi e il pittore, che aveva già ricevuto un acconto di trenta ducati, non avendo certezza dell’intero pagamento, interruppe l’esecuzione. Grazie ad una cedola di pagamento del Banco di Sant’Eligio, sappiamo che il lavoro continuò grazie all’erede e figlio, Francesco Mormile (1566 – 1649), che versò al pittore altri 10 ducati il 25 giugno 1601, impegnandosi a completare il pagamento, con la condizione che l’opera fosse stata terminata entro i quindici giorni successivi. L’icona è la stessa di quella attribuita, attualmente, a Fabrizio Santafede (1560 – 1635)?
Oltretutto, come si evince da una postilla alla suddetta cedola, il giovane duca di Campochiaro si impegnò a cedere allo stesso pittore, per 10 ducati, la vecchia opera deteriorata.
Sulla fondazione, invece, del Convento della Madonna del Carmine di Somma ebbe un ruolo rilevante il napoletano e carmelitano Alfonso Zozo, Maestro e Dottore in Teologia. Nel 1550 il frate carmelitano divenne priore del Convento del Carmine di Napoli e, tra il 1552 e il 1555, fu nominato priore della Provincia di Napoli e Basilicata. Il Monastero di Somma, come riferisce Padre Mariano Ventimiglia nella sua opera Degli Uomini Illustri del Regal Convento del Carmine Maggiore di Napoli, Napoli, 1756, fu edificato l’anno 1530 nella città di Somma in un luogo consistente in alcuni giardini e case, (che) sin dall’anno 1470 fu donato al Carmine di Napoli da Donna Carmosina Cicinelli, Dama Napoletana, alla cui fondazione concorse il nostro Alfonso, non solo colla sua industria e fatica, ma anche con proprio denaro e ne fu Priore per lo spazio di quindici anni.
Giovan Battista de Lezana, nel tomo IV degli Annali dell’Ordine Carmelitano , ci riferisce che già nell’anno 1507 vi era in Somma un monastero carmelitano. A tal riguardo il 15 giugno del 1507 il nobile Luca Matteo Caraccioli veniva nominato Priore e Vicario generale del Monastero di Somma. E’ facile, quindi, che l’antico Convento del 1507 o era stato abbandonato dai Padri Carmelitani oppure i frati si erano trasferiti nella nuova struttura edificata nel 1530.
Il convento, fin dalla sua origine, fu grancia soggetta al Convento del Carmine di Napoli; ma nel 1725, insieme agli altri, passò alla nuova Provincia Napoletana.

Altra illustre famiglia,I Figliola, possedeva un prestigioso palazzo dietro la Collegiata e abbiamo notizie della loro presenza sin dal 1026 (Capasso, Monumenta…,Reg.407). Il 15 marzo 1719 il Rev. D. Antonio Figliola, Parroco di San Giorgio, si spense e lasciò tutto il suo patrimonio al Convento di San Domenico (ASN, Monasteri Soppressi, vol.1786). Diversi membri di questo illustre casato ebbero pubbliche cariche nella nostra città.
Una curiosità: il nome di Madama Filippa (detto dal popolo Fileppa per il frequente scambio tra loro della i ed e) è dovuto alla siciliana nutrice di Giovanna I d’Angiò, Filippa di Catania, che sposò Raimondo de Cabannis. Giovanna, sin dalla morte del padre Carlo d’Angiò detto l’Illustre (1298-1328), divenuta signora di Somma (Minieri Riccio, Studi sopra 84 registri, pag.67 che cita un registro angioino ora distrutto) donò alla sua nutrice in feudo Starcie site in terra Summe que fuit q.am Magisteri Joannis de Grissiaco (Minieri Riccio, Notizie storiche tratte da 62 registri angioini, pag.134). Storici e letterati quali Sannazzaro, Pontano, il Caro, Di Costanzo, Summonte, Colletta, Ingarrica diventarono nel corso del tempo nomi comuni della città di Somma. Iacopo Sannazzaro, in particolare, venne in Somma nel 1527 e vi rimase per quell’anno e parte del successivo sino a quando i soldati del Conte di Lautrec non invasero le contradi sommesi; egli era entusiasta della nostra città e soleva affermare che Somma era la perfetta immagine dell’Arcadia col bicipite Parnaso. Fabricio Luna, umanista e grammatico del ‘500, pubblicò nel 1536 in Napoli, per i tipi di Giovanni Sultzbach il Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi non men oscuri che utili e necessarj del Furioso, Bocaccio, Petrarcha e Dante nuovamente dichiarati e raccolti da Fabricio Luna per alfabeta ad utilità di chi legge, scrive e favella, nel quale parla di Somma, affermando che non c’è paese al mondo di più temperante aere. Raimondo di Sangro (1710 – 1771), VII Principe di San Severo, personaggio napoletano noto per le sue alchimie e per il suo Cristo velato, abitò per alcuni mesi del 1763 nella nostra città per scontare una detenzione tramutata in domicilio.

Tanti personaggi, che riscontriamo in documenti relativi alla storia di Somma, hanno avuto grande risonanza nella storia del Regno di Napoli e tra questi ricordiamo Nicola Spinelli, massimo giudice di Carlo I d’Angiò, il marchese Gaetano De Felice, grande figura di letterato e giornalista clericale della fine dell’Ottocento, il Generale Angelo D’Ambrosio, militare amico di Murat e buon conoscente di Napoleone, S.E. Michelangelo Cianciulli, ministro della giustizia di Murat e infine Don Baldassare Cito, presidente del Sacro Regio Consiglio nel 1763.
La Città di Somma, inoltre, è entranella storia della vita del principe d’Elboeuf, Emanuele Maurizio di Lorena, ricordato negli annali come il primo scopritore delle antichità ercolanesi, proprietario della splendida e celebre Villa d’Elboeuf di Portici. Il principe franco-austriaco, infatti, sposò la sommese Maria Teresa Strambone, figlia unica di Girolamo, Duca di Salsa, abitante nella Terra di Somma nel luogo detto la Villa. Il matrimonio fu celebrato il 9 ottobre 1713 nella parrocchia di S. Sofia nella Chiesa di Santa Maria Maggiore di Napoli. (ASNA, Notaio A. De Martino, 582/49, f. 173, Capitoli matrimoniali, 14 e 16 ag. 1713; Borrelli, in Napoli Nobilissima, 31, 1992, p.64).
Non mancano opere pittoriche di pregio a corredo delle numerose fabbriche religiose e degli oratori privati sparsi in tutto il territorio, consistenti in preziosi affreschi dell’XI e XIV secolo e tele del XVI, XVII e XVIII secolo. A tal riguardo ricordiamo Jacopo Parmese, pittore stimato di Somma nel 1400, che insieme con Galvano da Padova affrescò il palazzo della Duchesca a Napoli (Filangieri G., Documenti per la storia, le arti e le industrie delle province napoletane, Vol.IV, pag.252).

Pianta della Città di Somma (1799 - 1800) di Luigi Marchese

Pianta della Città di Somma (1799 – 1800) di Luigi Marchese

L’aneddotica storia sommese ci ha tramandato, inoltre, il passaggio nella nostra città di svariati santi, a partire da san Pietro, san Gennaro, san Sossio e chissà quanti altri! Ma si tratta di aneddotica e non di storia! Un Santo che, invece, certamente è passato per Somma è san Giuseppe Calasanzio (1557-1648), fondatore della Congregazione dei Chierici regolari poveri della Madre di Dio delle scuole pie (detti scolopi), che soggiornò brevemente in queste contrade tra l’ottobre e il novembre del 1627. Dalle note al processo di beatificazione di san Giuseppe Calasanzio, scritte dal padre dello stesso ordine Vincenzo Talenti, apprendiamo che ben due nostri antichi concittadini furono miracolati, a distanza di tempo, dal futuro Santo (fonte Domenico Parisi).

Tanti santi protettori, inoltre, si sono succeduti nella millenaria storia del paese:
San Sebastiano, 1649/29/luglio – L’ Università stabilì di continuare la padronanza del glorioso San Sebastiano, protettore di Somma, per la soprastante mortalità di uomini che corre, e quindi si ordina di assegnarsi alla cappella di detto santo protettore ducati 6 l’anno per oglio e cera;
Madonna del Rosario, 1649/31/ottobre – L’ Università approvò la spesa di ducati 10 per comprare lo solito cereo che questa Università è solita donare nella festività del SS.mo Rosario, protettrice di Somma, per la processione che si fa per tale effetto;
Beata Vergine di Castello, 1660/3/luglio – L’Università si congregò per nominare la Beata Vergine di Castello Patrona e Protettrice, e per chiamare e far dimorare in quella Chiesa qualche…;
San Gennaro, Vescovo e Martire, 1809/30/luglio – Il Decurionato della Terra di Somma ammette nei conti del sig. Sindaco la spesa di 6 ducati e grana 20 a conferma degli accomodi necessari per la ristrutturazione delle strade interne in occasione della processione del glorioso protettore San Gennaro. Nel 1859 il santo fu ufficialmente riconosciuto protettore della città.

Nel XVI secolo a Somma viveva un piccolo esercito di religiosi: erano circa una sessantina i preti secolari; altre decine di monaci e monache popolavano i numerosi Conventi locali. Vi erano anche illustri Vescovi nativi di Somma: Gian Michele De Rossi, dell’ordine Carmelitano, nato a Somma nel 1583 e morto nel 1638, nominato Vescovo di Minervino in Puglia e pochi mesi dopo, l’11 (14) aprile dello stesso anno, trasferito nella sede vescovile di Alife; Giovanni Leonardo Bottiglieri, Vescovo di Lettere dal 1591 alla sua morte nel 1599; Fra Michele (Marcello Bologna), Teatino dei Duchi di Palma, nato a Somma nel 1647, Vescovo di Isernia e dal 1701 di Amalfi; Antonio Maria Carafa, nato a Somma Vesuviana il 1° gennaio 1682, entrato nell’Ordine dei Teatini, fu ordinato nel 1706 e nominato Vescovo di Avellino e Frigento, oltre alla celebrazione di un sinodo, ebbe cura soprattutto del Seminario e della Cattedrale. Morì a Napoli il maggio 1745 e fu sepolto nella Chiesa di S. Paolo Maggiore. Nella Vita del gloriosissimo Padre Santo Agostino, Vescovo e Dottore di S. Chiesa di Cesare Benvenuti e José Maria Fonseca de Evora si cita – come riferisce il Prof. Domenico Parisi – un Vescovo Silvano, sommense, Decano e Primate della Numidia e, a pagina 421, si riporta ancora un altro Vescovo, Felice di Zomma, ovvero di Somma, nel 411 d.C..

Il circuito sacro del paese comprendeva nel Settecento numerosi luoghi di antica memoria: la parrocchia di San Lorenzo, la Chiesa Collegiata sotto il titolo di S. Maria la Sanità; Ospedale e Chiesa della Pace; Chiesa e Convento dei Monaci Carmelitani; Parrocchia di San Pietro; Parrocchia di San Giorgio con annesso ospedale di Santa Caterina; chiesa e convento dei Padri Domenicani; cappella di Santa Maria delle Grazie; parrocchia di S. Michele Arcangelo o dell’Angelo; parrocchia di Santa Croce. A riguardo, in data 18 luglio 1830, la ripartizione del numero delle anime delle parrocchie era la seguente: S. Croce 3620; San Michele Arcangelo 2192; San Giorgio Martire 1278; San Pietro 1358.
Tre conventi gestiti dagli Eremitani di Sant’Agostino erano distribuiti in questo modo: un convento, detto Tutti i Santi, era ubicato alla fine di via Piccioli; un altro allo Spirito Santo di fronte all’attuale Cappellina Troianiello; il terzo convento, come riferisce Domenico Maione, dove è ubicata la Collegiata. Vi era, prima del 1699, la chiesa o cappella di San Sebastiano, protettore di Somma, abbellita di varie et antiche pitture e di molta divotione al popolo, essendovi nelle medesima eretti alcuni benefici semplici. La chiesa, situata in Plathea detto lo Borgo, seu lo Trio, fu distrutta dalle fondamenta su ordine del Vescovo di Nola, si presume Daniele Scoppa (vescovo dal 1695 al 1703), per dare spazio alla Grancia dei Padri Certosini di San Martino. Furono spesi, per l’occasione, ottanta scudi. Resta il fatto che, all’epoca, fu avanzata una supplica dell’Università di Somma (sindaco di Prigliano era Salvatore Molaro) alla Congregazione dei Vescovi e Regolare di Roma, affinché fosse riedificata quella cappella (ASN, Fondo notai del XVII secolo, scheda 7, prot.9, notaio Lugliano Pietro, 1699). All’epoca la congregazione romana era diretta dal Cardinale Gaspare Carpagna o Carpineo (1675 – 1714). L’avvocato e storico Francesco Migliaccio, nelle sue Notizie inedite dal 1268 al 1885, menziona nel 1780 una cappella di San Sebastiano dei Martiniani. E’ facile, quindi, che il beneficio di quella cappella distrutta sia passato ai Padri Certosini di Napoli, forse stava nella masseria di costoro proprietà.
I sommesi, tutti o quasi tutti, erano associati a una o più confraternite e pie unioni. Quindi processioni non ne mancavano sul territorio. Un esempio calzante della religiosità popolare si osserva nel numeroso patrimonio di edicole votive sparse per l’intero territorio e si riscontra subito da una loro analisi che esse sono quasi tutte dedicate alla Madonna sotto vari aspetti (Rosario, Carmine, Immacolata, Addolorata e Castello), quali diretta conseguenza dell’azione pastorale e della predicazione dei Padri Domenicani, Carmelitani, Francescani, Eremitani, clero locale e così via. Sul finire del ‘700 la Città Regia di Somma, in base alle statistiche dell’Abate Sacco Francesco del 1795-96, contava 7127 abitanti. Era famosa per la produzione di frutti saporiti, vini generosi, olio e gelsi per seta.
L’insigne Collegiata, sotto il titolo di Santa Maria Maggiore, era servita da tre Dignità, da nove Canonici, da un Sacrestano, da tre Ebdomadari (che si occupavano a turno del servizio liturgico) e da sei Chierici beneficiati. Il Prof. Parisi Domenico ci chiarisce che la chiesa di Santa Maria della Sanità, scelta poi per diventare Collegiata nel 1600, era gestita dagli Eremitani di Sant’Agostino fino al 1594; successivamente, dopo la scissione dell’Ordine tra Eremitani e Agostiniani Scalzi, la guida passò a quest’ultimi che la tennero fino al 1608. Nell’anno 1656 Somma, come tutte le province del Regno di Napoli, fu colpita da una violentissima pestilenza …che fece inorridire i contemporanei (e) trasmise spaventose tradizioni… .
A Somma il morbo portò nella tomba 178 persone, che furono così sepolte: 80 nella Chiesa di San Giorgio, 30 nel Convento di Tutti i Santi, 28 nel Convento di Spirito Santo, 22 in San Lorenzo, 3 in San Domenico, 1 in Santa Maria del Pozzo, 1 in Santa Maria del Carmine, 1 nella Collegiata, 2 fuori dalla sua porta e 4 in aperta campagna. I conventi annessi alle Chiese di Tutti i Santi e dello Spirito Santo, appartenuti agli Eremitani di Sant’Agostino, furono soppressi nel 1653 con bolla di Papa Innocenzo X, perché le loro entrate non erano occorrenti a mantenere le due comunità monastiche.

Esistevano in città otto confraternite laicali sotto i titoli del Sacramento, dell’ Immacolata Concezione, del Rosario, del Carmine, di Santa Maria della Neve, di Santa Caterina, di Santa Maria de’ Battenti e dei Morti.

LE CONFRATERNITE SOMMESI in www.confraternite.it clicca sopra per accedere nel sito.

La rivista trimestrale n° XXIV Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, pubblicata a Torino nel 1907, ci fornisce una insolita descrizione di queste confraternite e dei loro membri:

A Somma Vesuviana, vi è invece un continuo via vai di piccole processioni di confrati. Sono popolani coperti da un lungo camice bianco, con cappuccio che scende sulla faccia e lascia solo due buchi innanzi agli occhi per orizzontarsi: è il costume delle confraternite che accompagnano i morti al cimitero. Precede uno di questi frati, sorreggendo una gran croce. E tutti si battono il petto fortissimamente. Guai a mettersi sulla loro strada, guai a tentare di passare sulle loro file. Chi li incontra ha il dovere di fermarsi finché non siano sfilati. Se lo dimentica, da sotto le tuniche si levano nodosi bastoni per punirlo, e, ove, i bastoni non bastassero, ci sarebbero i coltelli. Sempre vi sono, intanto le bestemmie. E’ il rovescio della medaglia, è il lato comico. Opera meritevole delle confraternite era l’accompagnamento funebre e la sepoltura dei morti in miseria. Fino alla fine del 1949, erano ancora loro a svolgere questo pietoso compito con una propria coltre e una bara comune: il 31 dicembre del 1949, Romano Rosa fu l’ultima ad avere il funerale dalla Confraternita del SS. Rosario (cit. Franco Perillo).

A Somma, si ricorda un clamoroso episodio di fucilazione, senza regolare processo, ad opera del capitano Federico Bosco di Ruffino. In data 23 luglio del 1861 alle ore 15, nei pressi del largo Mercato (forse Cupa San Giorgio), oggi piazza Vittorio Emanuele III, sei cittadini di Somma furono fucilati dai bersaglieri senza uno straccio di processo:

Francesco (di) Mauro nato a Somma il 21 agosto del 1816 da Giuseppe e Teresa Terracciano, sposato con Donna Errichetta Lucia Pisanti (+ 1898) fu Filippo di Ottajano, domiciliato in Strada Castiello, impiegato civile;
Giuseppe Iervolino nato a Napoli (?) da Domenico (negoziante) e Donna Rachele Cuocolo, sposato con Angela Rosa Perillo, domiciliato in Strada Persico, proprietario;
Angelo Granato nato a Somma il 23 marzo del 1808 da Carmine e Aurelia Mele, sposato il 30 giugno del 1845 con Anna Maria Granato, domiciliato in Strada Ciciniello, proprietario;
Luigi Romano nato a Somma il 2 maggio del 1825 da Carmine ed Eugenia Colella, sposato con Vincenza di Palma, domicilato in Strada Pigno, proprietario;
Saverio Scozio nato a Somma il 31 luglio del 1832 da Nicola Eposito seu Scozio e Maddalena di Mauro, sposato il 31 gennaio del 1853 con Chiara Maria Concetta di Palma, domiciliato in Strada Castello, possidente;
Vincenzo Fusco nato a Somma il 2 novembre del 1805 da Sabato e Carmina Maione, sposato il 2 aprile del 1831 con Pasqua De Falco e domiciliato in Strada Spirito Santo, contadino.

* L’ECCIDIO DI SOMMA DEL 23 LUGLIO 1861 – CLICCA SOPRA

* REGISTRI DELLA GUARDIA NAZIONALE 1861 – CLICCA SOPRA PER ANDARE AL REPERTORIO

La Giunta Comunale deliberò la somma di 26 carlini per la spesa del trasporto dei cadaveri al Cimitero.
Il Sindaco di Somma all’epoca era il Dottor Domenico Angrisani. Altri due fermati furono rilasciati in quanto religiosi: Rev. Felice (di) Mauro (1812 – 1893) di Giuseppe e Teresa Terracciano; l’altro reverendo si suppone (cit. D. Russo) che fosse Mons. Giovanni de Felice (1798 – 1877) di Andrea e Donna Maria Giuseppa d’Amato. Saverio Scozio era nipote di Francesco (di) Mauro, in quanto la madre Maddalena era una sorella di quest’ultimo.
Un triste episodio per la nostra comunità, che ancora oggi si interroga su quegli efferati delitti commessi all’indomani dell’Unità d’Italia. È evidente che i piemontesi vollero a tutti i costi ristabilire l’ordine, ma rimane il dubbio se i sei fucilati fossero veri briganti oppure vittime di qualche resa di conti tra le potenti famiglie locali, divise ormai in due fazioni (foto della fucilazione per gentile concessione del Dott. Mimmo Russo).
La lista dei nomi fu consegnata al capitano Bosco dal Sindaco Domenico Angrisani e dal capitano della Guardia nazionale Vincenzo Giova. Il 3 agosto successivo, comunque, fu inviata al Questore di Polizia o Ministro a Napoli una lettera di protesta contro i soprusi e le esecuzioni sommarie commessi dai nazionali e soldati Piemontesi (ASN, Alta Polizia, fs. 183, inc. 6406, f.11).

Fucilazione Brigante (coll. D. Russo)

Intanto dopo l’emanazione del R.D. n° 941 del 23 ottobre 1862, con il quale si assegnava una nuova denominazione al Comune di Somma Lombardo, anche il Consiglio Comunale della nostra Città, con delibera del 31 ottobre del 1862, chiedeva l’autorizzazione al cambiamento della propria denominazione con l’aggiunta dell’aggettivo Vesuviano. L’autorizzazione fu concessa con Regio Decreto n°1196 del 4 gennaio del 1863 ed ebbe effetto con la registrazione alla Corte dei Conti del 6 aprile del 1863. Con il trascorrere del tempo l’aggettivo iniziale venne tramutato nel femminile Vesuviana per concordanza con il nome della Città, senza che fosse intervenuto nessun decreto in merito.

Spirito guerriero e trattatista storico fu il concittadino Alberto Angrisani (1878 – 1953): proveniente da una rinomata famiglia di estrazione borghese, conseguì una discreta formazione umanistica, interessandosi di storia, archeologia e arte, sebbene i suoi studi professionali lo spinsero all’epoca dapprima a laurearsi in medicina e chirurgia e successivamente in farmacia. Numerosi sono stati gli studi condotti da Angrisani e pregevole è la sua opera Brevi notizie storiche e demografiche intorno alla città di Somma Vesuviana, Napoli, 1928. Il libro è una memoria scritta in pochi giorni, propriamente quindici, in difesa dell’autonomia della città. L’autonomia, infatti, fu salva. Volente o nolente – riferisce Jacopo Pignatiello – chiunque si accosti allo studio di Somma e dei suoi monumenti deve partire da questa ricerca molto accurata filologicamente. Un’altra opera che merita attenzione è Fasti di Somma scritta da Candido Greco nel 1974: un viaggio tra storia, leggende e versi poetici. Candido Greco avrebbe voluto fare il macchinista e il pittore, ma diventò insegnante e poi giornalista, ancora oggi seppure anziano vive la sua vita tra i libri e i suoi dolci nipotini.

Particolare attenzione merita la Chiesa di Santa Maria del Pozzo, decretata Bene Nazionale d’interesse archeologico, situata nel territorio dell’omonima frazione, la quale forma, con l’annesso convento e la cripta, un complesso di particolare interesse storico, artistico e architettonico.
Come uno scrigno prezioso, ricco di storia e di arte, l’antico complesso conventuale di Santa Maria del Pozzo a Somma Vesuviana – spiega l’archeologo Nicola Castaldo – è pronto ad accogliere il visitatore con la sua architettura austera ed essenziale, che si offre allo sguardo dall’ampio slargo che precede la chiesa. Articolato in diversi corpi di fabbrica, costituiti dal convento che si dispone attorno all’elegante chiostro scoperto, l’annessa chiesa con l’attiguo campanile, la struttura si estende su un’ampia superficie che definisce l’articolato sviluppo planimetrico nato attorno all’antico sacello di culto, ricavato in una cisterna di epoca romana, che accoglie il venerato affresco della Vergine von il Bambino, da cui l’appellativo de puteo con il quale e conosciuto fin dal bassomedioevo il complesso. Sorto in un’area di una villa rustica romana edificata, probabilmente, su una cresta montuosa marginata da impluvi, annessa ad un grosso predium destinato allo sfruttamento agricolo delle basse pendici del Monte Somma-Vesuvio e alla produzione vinaria, come lascia intendere il rinvenimento nell’area del convento dei resti di una cella doliaria, il convento trae origine dallo scoprimento fortuito dell’ icona ad affresco della Madonna, visibile dall’imboccatura circolare della cisterna, nella quale finito un maialino (animale sacro a Demetra). Leggermente a quota più alta rispetto al fondo della cisterna, sorge la chiesa medievale, forse sfruttando il piano d’uso della villa romana, luogo suggestivo e ricco di fascino che conserva un ciclo di affreschi stratificato databile a più fasi pittore dal periodo altomedievale a quello bassomedievale fino ad epoca rinascimentale ed oltre. La chiesa inferiore con abside e piccolo cimitero annesso, forse ricavato nel nartece che precedeva l’aula di culto, conserva inglobate nelle murature fusti di colonne in marmo bianco (resti del pronao?). La chiesa superiore è preceduta da un pronao con arcate sostenute da colonne e capitelli corinzi di spolio, sembra affini a quelli della villa romana in corso di scavo nella vicina località Starza della Regina, mentre altre colonne in marmo, forse anch’esse di spolio, sostengono la cantoria posta nella controfacciata della chiesa, nel cui interno sono conservate lastre terragne di sepolture. Altri elementi lapidei di spolio sono rintracciabili all’esterno del complesso, tra cui una transazione oggi riutilizzata ai lati di un piccolo ingresso.La caratteristica di maggiore interesse del complesso religioso è rappresentata dalla stratificazione temporale e, di conseguenza, stilistica della struttura che va dall’epoca romana, alla quale risalirebbero alcuni ambienti della cripta, fino al periodo angioino. La costruzione della chiesa superiore e del convento risale al Cinquecento: fu Giovanna IV d’Aragona, già venuta a Somma il 28 agosto del 1496 per consumare il suo matrimonio con Ferrantino d’Aragona (Giuliano Passero, prima pubblicazione della storia sotto forma di giornali ecc., p.105 e segg.), che nel 1510, rivolgendosi all’allora Vescovo di Nola Giovan Francesco Bruno, acquistò un vasto appezzamento di terreno con annessa una piccola chiesa dedicata alla Madonna del Pozzo. La sovrana fece realizzare un maestoso complesso religioso, poi donato ai frati francescani con il consenso di Papa Giulio II. La stessa sovrana istituì due importanti ricorrenze: una era la fiera del martedì in albis nel piazzale antistante il convento che durava otto giorni con la rilevante figura del magister nundinarum, che aveva la giurisdizione civile e penale per l’intera durata della fiera, sorvegliava sulle merci vendute e, al fine di evitare brogli, controllava prezzo, qualità, peso e misura, mettendo da parte addirittura l’autorità regia; l’altra disposizione contemplava, invece, per la nobiltà locale l’utilizzo delle mazze del Pallio nella processione del Corpus Domini. In un testamento della regina Giovanna, rogato dal notaio Gregorio Rosso nel 1518, si legge che la sua erede universale, Isabella d’ Aragona, aveva tra i suoi obblighi quello di completare la costruzione del monastero e di versare un appannaggio annuo di 60 ducati per il sostentamento dei frati francescani (cit. D. Parisi). Candido Greco scrisse che la chiesa inferiore denominata Nostra Donna, riferendosi a quelle ristrutturata da Roberto d’Angiò nel 1333, per festeggiare il fidanzamento di sua nipote Giovanna con Andrea d’Ungheria, parimenti suo nipote, divenne la Madonna del Pozzo il nuovo appellativo che comincia però ad essere documentato a partire dal 1423, dovette richiamare inevitabilmente alla mente la tradizione di Castellamare di Stabia che venerava nella Madonna del Pozzo una Madonna che allatta (Summae Civitas 74/2). In realtà se si fossero consultate le Rationes Decimarum Italiae nei secolo XIII e XIV si sarebbe potuto riscontrare che nel Duomo di Bari esiste una pergamena del 1° giugno del 1318 che attesta l’esistenza di un’ abbazia di Sanctae Mariae de Puteo de Summa il cui titolare era Tommaso Transelardo de Sancto Germano e dei due suoi procuratori, maestro Paolo Russo di Somma e il grammatico Bartolomeo di Barletta. Quindi, come riferisce Domenico Parisi, prima della ristrutturazione ordinata da Roberto d’Angiò intorno al 1333, la chiesa aveva già il titolo di S. Maria del Pozzo. Il complesso è famoso anche per il notevole patrimonio letterario che ha custodito per secoli fino a quando, nel 1866, venne decretata la terza soppressione dei monasteri ad opera dei Savoia con le Leggi Siccardi.

Complesso monumentale S. Maria del Pozzo.

Il patrimonio della biblioteca monastica fu, quindi, affidato alla Municipalità Sommese con decreto prefettizio del 24 aprile 1869 e una cospicua parte verrà concessa alla Biblioteca Popolare, inaugurata il 2 novembre 1921, ad opera dell’Unione Magistrale di Somma Vesuviana. I libri, d’inestimabile valore, sono oggi ospitati presso la sede del I° Circolo Didattico che, unitamente all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e alla Biblioteca Civile di Raffaele Arfé, ha provveduto nel 1922 alla realizzazione del Catalogo del Patrimonio Librario in questione. Un’altra parte del patrimonio librario consistente in quattro manoscritti e cinque libri a stampa per uso liturgico, invece, è custodita dalla Municipalità nell’Archivio Storico Cittadino Giorgio Cocozza e attualmente sottoposta a un accurato restauro per conto della Direzione dei Beni Culturali di S. Maria del Pozzo d’intesa con la Sovrintendenza per i Beni Archivistici della Campania.
Di grande rilievo e ben inserito nel contesto conventuale è il Museo della Civiltà Contadina Michele Russo, che testimonia la ricchezza della cultura agricola locale e propone un percorso di conoscenza della realtà della zona dal tempo dei Romani ad oggi. Il convento di Santa Maria del Pozzo è ricordato, inoltre, perché ospitò parte dei profughi veneti e friulani in occasione della Prima Guerra Mondiale e, nel tempo, tanta infanzia abbandonata, che in quelle mura trovò sollievo alle proprie sofferenze.

Accanto agli aspetti monumentali, a conferire prestigio a Somma Vesuviana sono anche le numerose manifestazioni folkloristiche e religiose-popolari che affondano le loro origini nel passato più remoto, rappresentando una forte attrazione per l’intero territorio campano. La più importante è la festa del 3 maggio, detta anche ‘o tre a Croce, festa civile e religiosa antichissima abbinata al culto della Madonna di Castello. Nell’usanza gallese, a partire dal VII secolo, la festa della Croce si teneva sorprendentemente proprio il 3 maggio. Secondo l’enciclopedia cattolica, quando le pratiche gallesi e romane si combinarono, la data di settembre assunse il nome ufficiale di Trionfo della Croce nel 1963, ed era usato per commemorare la conquista della Croce dai Persiani, e la data del 3 maggio fu mantenuta come ritrovamento della Santa Croce da parte dell’Imperatrice Sant’Elena nell’anno 326. Non è un caso che nella vicina città di Ottaviano nello stesso giorno si tiene la processione di una Croce, in cui è incastonata una teca contenente due schegge della Croce Santa di Gerusalemme, che furono portate – secondo la tradizione – alla comunità ottavianese dal monaco Francesco della Pietra di ritorno dalla sua missione in Terra Santa al tempo delle crociate.

Il 19 gennaio del 1623, il Preposito Generale della Congregazione dei Pii Operai, Padre Don Carlo Carafa (1561 – 1633) comprò da Giovan Domenico di Mauro, per mano di Notar Marco Antonio Izzolo, lo loco con case chiamato S. Maria a Castello nella Terra di Somma con molti territori contigui a detta chiesa (cit. D. Parisi). A riguardo, il religioso comprò quel sito, col peso del censo da pagarsi ogni anno al diretto proprietario, dopo aver venduto il suo bestiame e ricavato mille scudi. La suddetta Congregazione era stata istituita da Papa Gregorio XV (1554 – 1623) il 1° aprile del 1621. In quella masseria, distante dal centro del paese, esisteva, già nel 1561, una chiesa senza rettore, Santa Maria de lo Castro, provvista di tre tovaglie, un messale, due candelabri in legno, una conam magnam cum imagine B(ea)te Marie de relevo (del sollievo), quamdam conam parvam cum imagine Nativitatis, un panno vecchio ed ingiallito per l’altare ed una mediocre campana. Oltretutto, un’acquasantiera in marmo – situata attualmente sulla destra dell’entrata, recante la scritta sulla base A(n)no Salv(atoris) No(st)ri MDLI, cioè 1551 – ci porta ancora indietro di altri dieci anni. Nel 1586 era rettore tale Fabio Lanario dimorante, allora, in Roma. Nel 1616, invece, il rettore era Ottavio d’Alessandro, che per sua devozione celebrava una Messa ogni sabato, non avendo detta chiesa né rendite, né arredi sacri (Santa Visita 1616). La chiesetta era ubicata poco distante dalla regia cappella di Santa Lucia di epoca angioina (1271 ca.).
Padre Carafa si ritirò in austera contemplazione in quella sua masseria con tre sacerdoti, e qui visse per alcuni anni una dolce vita, attuando i suoi propositi missionari. In questa chiesa, dicesi, che vi collocasse similmente una statoa della Beatissima Vergine scolpita in legno, come ci riferisce il parroco di San Giorgio Martire, Don Antonio Figliola, in uno estratto di una sua relazione del 1713, pubblicata sul libro del Padre domenicano Serafino Montorio dal titolo Zodiaco di Maria, ossia le dodici province del regno di Napoli del 1715. Certamente, questa notizia non concorda assolutamente con la Santa Visita del 1561; infatti, all’epoca, come abbiamo già letto precedentemente, il Vescovo nolano Antonio Scarampo attestava già in loco una venerata conam magnam cum imagine della Vergine de relevo (una grande cappella con l’effigie della Vergine del Sollievo), detta popolarmente di Castello; inoltre, Padre Pietro Gisolfo, successore di Carafa alla guida della congregazione, non fa nessun accenno alla statua nella sua opera Vita del P.D. Carlo Carafa del 1667. La cosa più importante da risaltare, dopo un’attenta analisi stilistica della testa coronata della statua della Madonna, che l’impostazione rimanda a modelli iconografici di arte bizantina – romanica. Ciò fa pensare che quella Odighitria era già venerata nel castello svevo – normanno nel XI secolo. Quel luogo, comunque, divenne subito un rifugio per tutti quei poveri contadini del posto che, conoscendo la pietà del religioso, andavano a rifornirsi gratuitamente di legna, vino, pane, frutta e così via. Don Carlo Carafa si fermò in questo luogo solitario fino al 1929: lasciò la chiesetta per andare a fondare un’altra casa religiosa a Montedecoro, attuale frazione di Maddaloni. A tal riguardo, il Vescovo di Caserta – riferisce Padre Pietro Gisolfo – gli fece dono di una cappella dove era venerata, sin dal 1626, un’immagine votiva della Madonna. Padre Carafa, vedendo che il sito di Maddaloni era più confacente al fine che pretendeva, vendette subito quello di Somma e con quei denari comprò la terra sufficiente per costruire un nuovo complesso intorno a quella venerata cappella.
La piccola struttura sommese, infatti, con i suoi terreni contigui, fu rivenduta nuovamente dal Carafa alla famiglia di Mauro, stavolta a d. Francesco Antonio. La scelta di Carafa di vendere la struttura sommese era dovuta al fatto che per mantenerla vi bisognava spesa non ordinaria, oltre il peso insopportabile del censo. In questo modo stiede quella cappella fino all’anno 1631 – riporta il Rev. D. Antonio Figliola – quando sdegnato il nostro Dio per li peccati commessi in questo Regno dispose castigare questi Popoli coll’orribile eruzione del Monte Vesuvionel giorno dell’Ottava di Pasqua di Risurrezione. A riguardo, Don Antonio Figliola, nella sua relazione del 1713, non specifica quale giorno dell’Ottava fosse all’epoca: la tradizione popolare, però, confida nel VII giorno, cioè Sabato in Albis. Nel 1654, l’Università spese carlini trenta per lo quadro del Beato Gaetano, messo nella d(ett)a Chiesa. Il 27 gennaio del 1662, Francesco Antonio di Mauro lasciò per testamento al Venerabile Monastero delle Donne Monache Carmelitane della Città di Somma il territorio su cui era costruita la chiesetta di S. M. a Castello. Lo storico Francesco Migliaccio, nelle sue notizie inedite, ci narra di una controversia nata tra le monache carmelitane e d. Giuseppe Orsino – procuratore ed amministratore, insieme a d. Ridolfo Marano, dei beni di detta chiesa già dal 1656 – circa l’attribuzione delle oblazioni raccolte, in quanto la chiesa ricadeva sul territorio lasciato alle consorelle dal suddetto Francesco Antonio di Mauro, come già riferito precedentemente. Il nobile Giuseppe Orsino, come riferisce lo storico Angelo Di Mauro, chiamato in paese con il soprannome di sparapose, era un personaggio molto ambiguo, fratello di quel d. Antonio Orsino che aveva finanziato la ricostruzione della chiesetta. La causa arrivò, addirittura, dinanzi al Vescovo di Nola, Mons. Francesco Gonzaga, e alla Curia Metropolitana di Napoli. La sentenza, alla fine, stabilì che d. Giuseppe Orsino non doveva più intromettersi nelle cose della chiesa di Castello e, oltretutto, doveva consegnare chiavi, paramenti e tutto altro, e dare i conti. All’epoca della contesa, nel 1622, come riferisce un documento dell’Archivio della Collegiata di Somma (busta 54), allegata agli altri documenti, vi era anche una supplica cittadina, in cui si attestava che la chiesetta era stata riedificata dagli stessi abitanti già 200 anni prima. La notizia, quindi, ci assicura che la cappella era già esistente intorno al 1462 circa. Le consorelle, comunque, come padrone del luogo, mantennero al servizio della chiesa alcuni romiti e la fornirono di arredi sacri e di ogni altro bisognevole decoro. Il sabato e la domenica in Albis vi facevano celebrare una solenne festa in onore della Mamma Regina Maria a cui, col presente Figlio e Spirito, sia a laude e gloria per tutti i secoli dell’eternità (Lapide del Palazzo Coppola in via Castello). Il 21 aprile del 1707 morì, all’età di ottanta anni, Frate Antonio Vignali, eremita di detta chiesa, ove dimorava da circa trenta anni. Il 13 dicembre del 1749, il frate Domenico Capasso, eremita, morì e fu ivi sepolto. Nel 1744, come attesta il Catasto onciario borbonico, la cappella era grancia del monastero delle Carmelitane. Nel 1751, era ancora affidata alle cure delle monache, mentre nel 1767 stavasi restaurando (Migliaccio Francesco, Notizie di Somma Vesuviana dal 1268 al 1885 – 1939, inedito). Precedentemente, il 27 marzo del 1752, Frate Giosafat de Madero morì all’età di 104 anni, mesi uno e giorni 8. L’eremita, vissuto per ben 74 anni in solitudine, locum ampliavit vetustae Cappellae, sepulturam pro eremitis effodit, turrem pro campana extruxit, et campanam semel et iterum ruptam renovavit, cellulas edificavit, et habitationes restaurando multiplicavit, et in quella sepultum fuit. Nel 1800, il terreno vitato di circa moggia due, che circondava la chiesetta, apparteneva a d. Gennaro e d. Giuseppe de Felice, come si attesta nella Descrizione dei territori della pianta di Somma del cartografo Luigi Marchese di quell’epoca. Nel 1829, afferma lo storico Francesco Migliaccio, la chiesa dicasi di essere di pertinenza dei PP. Domenicani di Napoli; lo stesso si diceva nel 1855, quando la cappella fu trovata in buono stato. Il prof. Raffaele D’Avino afferma, però, che nel 1834 la chiesa era stata già ceduta dai Domenicani al parroco Don Pietro di Mauro, cui si avvicendò il nipote Don Felice di Mauro (teologo). Comunque, dopo diversi passaggi ereditari tra la famiglia di Mauro, la chiesetta passò, dapprima, alla famiglia Majello (1840 – 1850) e, successivamente, ai de Felice (1866 – 1873), per poi ritornare ai di Mauro (1877 – 1914). Nel 1920 circa, la chiesetta fu acquistata da Suor Angelina Coppola da Marigliano. In questo luogo, la religiosa si trasferì con un nucleo di orfanelle, tra cui ricordiamo la singolare figura di Assunta Ferruccio di Bisaccia. Nel 1947, gli eredi di Suor Angelina alienarono il luogo sacro a favore delle Suore Francescane Elisabettine, dette Bigie, da cui l’Amministrazione cittadina – esaudendo l’ardente voto del popolo sommese – lo riscattò, ordinando, nel 1957, rettore il Rev. Don Armando Giuliano. Nel 1964, venne finalmente aperta dall’Amministrazione Provinciale una strada che collegava, finalmente, il centro del paese con la chiesa. All’epoca, fu anche presentato un progetto di una nuova chiesa per poter sopperire all’accoglienza dei numerosi fedeli provenienti da ogni dove. Di quel progetto dell’Architetto Michele Sebastiano Cennamo rimane, attualmente, solo un vecchio plastico costruito e fotografato, all’epoca, dall’appassionato scultore Giorgio Perna.

La festa in onore della Vergine di Castello, che ha inizio il Sabato in Albis e si conclude il tre maggio, è caratterizzata dalle tradizionali paranze: sono compagnie di devoti accompagnate da gruppi di suonatori.
Tutto è incentrato sul canto, una delle tante meraviglie che la natura ha offerto all’uomo, e se questo canto, poi, è rivolto a una bella figliola allora tutto si tramuta in fuoco e passione. Il fuoco che illumina durante le notti di maggio il Sacro Monte avvolto in miti e leggende e la passione che, invece, si trasforma in una dolce melodia che da sempre il solito cantatore con il coro dei devoti improvvisa sul sagrato della chiesetta sotto il sorriso della Mamma pacchiana. Un canto che viene da lontano, sillabico, la cui melodia è costruita sulla scala maggiore napoletana con suoni prolungati e fioriti. Un infinito canto d’amore che a maggio si sparge tra le valli profumate di ginestre e arriva pian piano sotto la finestra della donna amata con il consueto dono della pertica. Tra i canti del mondo contadino una particolare attenzione è rivolta anche alla fronna, una forma di canto senza accompagnamento strumentale, una sorta di recitativo operistico, che i contadini usavano per comunicare tra loro a grandi distanze, portando la mano alla guancia per amplificare il suono. Grazie alla buona trasmissione e alla leggerezza del suono le fronne furono utilizzate in seguito presso le finestre dei carcerati per comunicare notizie in codice o per trasmettere messaggi d’amore e di conforto. La fronna rimane, però, una tipica forma di canto che precede ancora oggi lo svolgimento della tammurriata, viene eseguita da un cantore solista che accompagna il suo gruppo fino al sagrato della chiesa, esaltando la devozione nei confronti di una delle Madonne più invocata del territorio.

Solenne e drammatica è la Processione della Addolorata con il Cristo Morto che si svolge il Venerdì Santo con la presenza di quattro confraternite laicali: l’ Arciconfraternita del Pio Laical Monte della Morte e Pietà (1650), l’Arciconfraternita del SS.mo Sacramento, la Confraternita di S. Maria della Neve (1762) e la Confraternita di S. Maria del Carmine o della Libera (ca.1596): il rito è così sentito che migliaia di fedeli accorrono in città per assistere allo svolgimento.

PROCESSIONE DELLA ADDOLORATA CON IL CRISTO MORTO

Un discorso a parte merita l’attuale Festa delle lucernelle: una solennità extra liturgica abbinata alla festa della Dedicazione della Basilica di S. Maria Maggiore, anche chiamata la festa della Madonna della Neve, che ripropone ogni quattro anni un antico rito agricolo – pagano propiziatorio e di ringraziamento. Festa, proposta in due edizioni negli anni ’50 del Novecento e successivamente ripresa negli anni settanta del Novecento, per molti aspetti unica in tutto il Meridione, il cui aspetto più caratteristico è dato oltre dalla presenza di centinaia di piccole lucerne ad olio disposte in alcune strade secondo una tradizionale e particolare coreografia, anche da un antico canto di nenia omofono, sciolto, a carattere melismatico, in tonalità maggiore, intonato a cappella dalle invisibili donne del luogo, durante la processione del 5 agosto della Madonna della Neve:
O Madonna della Neve /tu che aiuti i tuoi fedeli /i tuoi fedeli li puoi aiutare /O Regina della Pietà /tutte queste lucerne accese /O Regina della città /Ai piedi della Madonna /è caduta una bella stella /nel fulgore del sole ardente /cade la neve che la fa bianca (testo di Ginette Herry).
Le origini di questa festa, però, non ci sono note e nel corso degli anni tanti studiosi si sono cimentati con le loro riflessioni, proponendo varie teorie sull’origine. Nessun documento dell’archivio storico della Collegiata, nessun illustre storico del passato, ne tanto meno lo statuto antico della Confraternita della Neve, la cita. Probabilmente la sua origine sarebbe stata incerta, non dico un’invenzione, se non fosse intervento il nostro ricercatore di storia locale Giorgio Cocozza, che dai Ristretti degli esiti straordinari fatti dai Reverendi Priori del Convento di S. Maria di Costantinopoli o della Pace di Somma tra il 1755 e il 1760 trasse quanto segue:

Mese di agosto 1757
Si fa esito di grana cinquanta pagate per compra di carta per i lampioni ed oglio per li lumi fatti nella festa delle lucernelle;

Mese di agosto 1759
Si fa esito di carlini cinque pagati per compra di oglio ed altro servito per li lumi fatti per la festa della Madonna della Neve.

Queste importanti notizie, rinvenute nella busta 6594 dei fascicoli delle Corporazioni religiose soppresse dell’Archivio di Stato di Napoli, sono gli unici documenti finora che comprovano lo svolgimento di un’antica festa delle lucernelle in onore della Madonna della Neve, ma non attestano nient’altro. Tanti sono ancora gli interrogativi da sciogliere. Certamente in principio doveva essere era un’umile festa, cittadina o rionale, con le lucernelle che si comportavano, in un certo senso, come le moderne luminarie delle feste patronali. L’uomo, infatti, ha voluto sempre arricchire la festa di luci, di arredo e di gioia. Qualche studioso locale più riflessivo si è azzardato ultimamente a ipotizzare il coinvolgimento, in origine, di tutto il paese. Se così fosse si spiegherebbe anche la presenza delle lucerne nel vico Malacciso, posto extra urbem o extra moenia. Sicuramente la festa non veniva svolta il 5 agosto, poiché il Capitolo aveva la consuetudine di celebrare la festa della Dedicazione di Santa Maria Maggiore o della Neve nella seconda domenica di agosto con una grande processione della Vergine per la città. Resta tuttora aperto l’interrogativo sul perché non veniva solennizzata il 5 agosto, come stabilito dal Calendario liturgico.
Anche a Conversano, come a Somma, in occasione della antica festa e processione di San Rocco vi era un’illuminazione, che si direbbe ufficiale, composta di lucernelle, piccole lucerne di creta aperte sopra, che erano poste su regoletti di tavole, affisse ai muri (straelle), in forma di croce o triangolo o in qualche altra forma geometrica di facile esecuzione. A Somma, attualmente, vi sono tavole di legno che nell’occasione sostengono le lucerne in varie forme geometriche: in origine solo triangoli e quadrati e cerchi. Queste feste con fronde, legni e lucerne, erano frequentissime – come riferisce Domenico Parisi – nel Regno delle Due Sicilie tantoché, quando nel 1854 il Cav. Francesco Del Giudice, direttore del Corpo dei Pompieri della Città di Napoli, diede alle stampe il suo Manuale pratico per gli incendi, dedicò un intero capitolo alla loro accorta e prudente realizzazione, sottolineandole i rischi ed i pericoli connessi.
Il compianto Raffaele D’Avino ci conferma, in uno dei tanti suoi articoli apparsi sulla rivista Summana, che l’olio, dettoo’ccisto, per alimentare le lucerne era in consegna alla Confraternita della Neve e veniva pagato per molti anni da rendite derivanti da alcune abitazioni in via Botteghe, ma non cita la fonte da cui proviene questa notizia. Poi tutto tace. Ecco che è subentrata in queste edizioni moderne, tutto ad un tratto, la fantasia popolare, l’invenzione, la scena, le figure geometriche, gli specchi, i fantocci, le zucche, le oche, la morte, l’acqua: una mescolanza di strani effetti che non aiutano, però, a darci una risposta decisiva sulla vera origine di questa festa. Comunque, fino a quando le certezze storiche non elimineranno queste contraddizioni, la festa rimane per la sua atmosfera magica una delle più suggestive della Campania e uno dei momenti più qualificanti di un quartiere dal glorioso passato.

Festa delle Lucerne 2015 di Raffaele Di Lorenzo on Vimeo.

La cittadina si distingueva, inoltre, per la produzione, fin dall’epoca romana, di frutta, vino e olio. Una conferma della fama della frutta locale è data da una vicenda tramandata da Carlo de Lellis in una delle sue opere: lo storico ci riferisce che l’imperatore Filippo V, durante il soggiorno napoletano nel maggio del 1702, dopo aver assaggiato la nostra frutta, pretese nei vari pranzi ufficiali che fosse servita solo ed esclusivamente quella della nostra città.

Tra la produzione d’eccellenza di questa generosa terra vi è l’albicocca: un frutto prelibato, localmente chiamata crisommola, destinato al consumo fresco, ma anche capace di trasformarsi in succo e polpa, in confetture e in buon sciroppo. Le più diffuse tipologie sono la ceccona, la palummella, la pellecchiella, la boccuccia liscia e spinosa. L’albicocco fu introdotto in Italia per la prima volta nell’area vesuviana e le prime tracce risalgono al IV secolo. Le prime trattazioni sistematiche risalgono al XVI secolo e sono dovute a Gian Battista della Porta, cui si deve anche la loro definizione di cisomele da cui deriva il termine dialettale crisommole. Questo frutto di Somma Vesuviana sbarcò anche negli Stati Uniti grazie allo studioso svedese Gustav Eisen (1847-1940): lo scienziato lo presentò con tutte le sue proprietà all’Accademia dell’Agricoltura Americana in California nel luglio del 1914.

Nei primi anni del ‘900 a Somma vi era una grande organizzazione del mercato delle mele annurche con tanti produttori, grossisti, prezzi, modi e mezzi di trasporto. Nel 1901 il Bollettino Nazionale dell’Agricoltura dedicò addirittura un lungo articolo al commercio di Somma Vesuviana. I più importanti produttori locali erano Baldassarre D’Avino, Michelangelo Raja e Michele Giuliano. Vi era, addirittura, anche una politica dei dazi adottata, nei confronti delle annurche sommesi, dall’Austria e dalla Germania. Il mercato di questo frutto, travolto dalla crisi dopo l’eruzione del 1906, fu salvato prima dai Ministri di Giolitti e poi dalla Grande Guerra (Prof. Carmine Cimmino).

In particolare la produzione del vino vanta origini antichissime, in quanto i primi vitigni furono quelli etruschi e poi quelli importati dalla Grecia, tra cui il Greco ed il Lacrima, detto più tardi Lacryma Christi del Vesuvio, il cui nome è legato alla leggenda che racconta del pianto di Cristo sulla vetta del monte Somma. Il vino Greco di Somma, in particolare, era conosciuto dal Cervantes, dal Tasso, dal Caro e dal Pontano.
Il vino di Somma infondeva anche forza e coraggio: nel 1633 Gómez Suárez de Figueroa y Córdoba, Duca di Feria, guidò un esercito formato da spagnoli e napoletani nella guerra germanica contro le truppe svedesi. Le cronache del tempo riferiscono che molti soldati napoletani, costretti a passare dal vino di Somma alla birra tedesca,dalla lagrima alla cervoza, lagrimavano la debolezza dello stomaco […] e quei che non ne morivano, soggiacevano almeno a grave infirmità, impossibile all’uso delle armi» (Maiolini Bisaccioni, 1634, rif. D. Parisi)

L’uva catalanesca di Somma è stata sempre famosa. Questo frutto deve il suo nome alla sua origine geografica: fu importata qui dalla Catalogna, da Alfonso I d’Aragona nel XV secolo, e impiantato sulle pendici del Monte Somma. Su questi fertili terreni vulcanici l’uva fu presto sfruttata per vinificare dai contadini vesuviani negli imponenti cellai delle masserie, dove ancora oggi è possibile trovare torchi che risalgono al ‘600. Negli anni venti del Novecento, i nostri contadini si erano tramandati un metodo di conservazione molto efficace, descritto all’epoca dal dottor S.C. Del Giudice, direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura per la Provincia di Napoli. Quando arrivava il momento della potatura secca, i nostri viticoltori sceglievano un tralcio più vigoroso e lo propagginavano in un vaso di terracotta o, meglio, in un tinello di legno ripieno di terra. La base del tralcio si metteva nel vaso, mentre la parte libera usciva dal vaso e veniva attorcigliata a dei piccoli tutori, appositamente piantati nel vaso stesso, a forma di cupola o piramide. Il tralcio rimaneva attaccato alla vite, mentre il vaso veniva tenuto alla giusta altezza sorretto da appositi sostegni.
Durante l’estate, se il clima era molto secco, il vaso veniva innaffiato per mantenere il terreno sempre fresco e permettere l’attecchimento del tralcio. Così facendo il tralcio fruttificava come tutti gli altri e riceveva gli stessi trattamenti. Prima delle gelate invernali il tralcio veniva tagliato e separato dalla vite alla quale era attaccato e, rimanendo sempre nel vaso, veniva trasportato in un ambiente coperto e ben ventilato nel quale il contadino seguitava a praticare il diradamento degli acini guasti e ad innaffiare, di tanto in tanto. In questo modo i nostri viticoltori riuscivano a portare sul mercato di Napoli, durante la Pasqua, i famosi vasi d’uva che costituivano, per i napoletani, una vera meraviglia e per gli ingegnosi contadini Sommesi una fonte di guadagno non trascurabile, dal momento che ogni vaso, sul quale si potevano ammirare da un minimo di 7 fino a 15 e più grappoli, negli anni venti, veniva pagato tra le 30 e le 60 lire!(fonte D.Parisi).

Cospicua era nell’Ottocento la coltivazione del baco da seta. Il lavoro al telaio rientrava tra le più importanti competenze femminili in città come la filatura. Quando il lavoro dei campi non richiedeva la presenza femminile, era rilevante quella fornita dalla produzione di tessuti in lino, canapa, cotone e seta. Il prof. Domenico Parisi ci informa che nel 1872 nelle case sommesi vi erano ben 500 telai: un numero enorme se confrontato con le 17 fabbriche e i 200 telai di Portici, i 41 telai di Sant’Anastasia, i 29 di Pomigliano e i circa 40 di Ottaviano.

A pagina 220 del National Year Book, pubblicato a New York nel 1918 da C.S. Hammond & Company, Somma Vesuviana era annoverata tra le principali città del mondo.

Una notizia, tratta dalla Cronica di Napoli di Notar Giacomo, pubblicata nel 1845 a Napoli dalla Stamperia Reale a cura di Paolo Garzilli, ci riferisce a pagina 271 che il 9 aprile del 1504 un frammento di asteroide colpì il territorio di Somma. L’autore così scriveva: A dì VIIII de aprile anno 1504 delunidi anocte venendo lo martedi de pascha de resurrectione venne uno certo foco dal cielo inlo casale de sancto nastaso delle pertinencie de somma che tra pagliara et case abrusiaro da circha 25 si ancho più homini et animali et dicevase havere dapnnificato da circha tre milia ducati et quella nocte fo uno vento multo caldo et terribele che allo bosco de striano et allo bosco reale cascaro più de mille arbori verdi.

Come si sa, Napoli e l’area vesuviana ai piedi del Monte Somma sono tra i poli di commercio e consumo di baccalà e stoccafisso più importanti al mondo; da noi, il merluzzo, solo essiccato e messo sotto sale, cominciò ad assumere un ruolo centrale nell’alimentazione in tre precisi momenti storici. Il primo momento risale al 1563, quando il Concilio di Trento sancì le regole del mangiare magro, con divieto di mangiar carne in tempo di Quaresima, i venerdì e le altre feste comandate. Il pesce essiccato, quindi, divenne un’ottima alternativa alla carne già dal XVI secolo in poi. Successivamente, nel 1749, Carlo III di Borbone stipulò un trattato con Federico V, re della Danimarca e della Norvegia, per l’importazione del pesce secco e salato che costituiva, specie per le fasce più deboli, un alimento a basso prezzo. Risale, infine, al pieno Ottocento, l’arrivo del baccalà e dello stoccafisso nel territorio vesuviano e, in special modo, tra S. Anastasia e Somma Vesuviana, dove sia a causa dell’esigenza di nuove norme igieniche, sia per sgravi fiscali concessi ai Padri Domenicani, vennero installate proprio dai monaci nuove vasche per ammollare il pesce essiccato, spostando il processo in aree meno abitate e riducendo così le ormai insopportabili lamentele della popolazione contro i baccalajuoli. A Somma, tra l’altro, la comunità religiosa Domenicana era ben inserita nel contesto socio-culturale del paese. Ma a quanto sembra, dalle ultime acquisizioni, fu il ricco mercante veneziano napoletanizzato Guglielmo Samuelli a mettere in commercio sul nostro territorio il quotato prodotto che, poi, avrebbe fatto di Somma la capitale italiana dello stoccafisso e del baccalà. Samuelli, nella prima metà del Seicento, era socio della Compagnia Guadaya e Vots che curava, tra l’altro, le importazioni di baccalà ed aringhe per l’Esercito e la Marina del Governo Napoletano. Le cronache del tempo riferiscono che le balle venivano trasportate nel territorio di Somma e lavorate con l’acqua delle sorgenti del Monte Somma. Il Samuelli accumulò nel tempo una notevole fortuna all’ombra del Vesuvio: acquistò, infatti, da queste parti una masseria arbustata con casale per la cifra di 3.400 ducati, dove si recava a caccia ogni volta che veniva dalle nostre parti per affari (Inventario dell’Archivio Baldovinetti Tolomei 176.4, Guglielmo Samuelli – da Napoli 10 lettere; Napoli nobilissima vol. 31, 1992; Ricerche sul ‘600 napoletano, L & T, 1989). La lavorazione del pesce, ancora oggi, si intreccia parallela al paziente e faticoso lavoro dei nostri padri, che hanno sempre creduto e saputo mantenere una così nobile arte. Oggi è un vero pezzo di economia della città in continua crescita ed espansione.
Nel tempo si sono diffuse numerose ricette a base di stoccafisso e baccalà: dal baccalà fritto, al baccalà in bianco, dallo stoccafisso alla marinara al celebre Stocc’e patane. Celebri artisti e intellettuali hanno esaltato il baccalà: Totò, Eduardo De Filippo, Salvatore Di Giacomo, Pino Daniele e tanti altri. Numerosi ristoranti del territorio hanno riportato in voga l’uso di questi prodotti dei mari scandinavi, con grande rispetto della tradizione e, oggi, anche tanti chef, con un approccio più sperimentale, stanno rivalutando il suo ruolo centrale nella nostra storia culinaria (cit. Vincenzo Notaro).

Nel volume Forze produttive della Provincia di Napoli di Alessandro Betocchi, pubblicato a Napoli nel 1874, è presente una statistica delle aree produttive e dei mulini presenti nella provincia di Napoli.
Somma Vesuviana all’epoca, aveva una superficie coltivata di 3.103 ettari e 1 mulino attivo per la macinazione (Luigi Verolino).
Erano nel 1872, ben 198 i mulini nella Provincia nostra; di essi 88 dipendevano dal Circolo d’Ispezione per le Gabelle di Napoli, e 110 dal Circolo di Castellammare.
De’ primi, ventisette sono nella circoscrizione del Comune di Napoli, sei in San Giovanni a Teduccio, uno a Barra, sette a Ponticelli, quattro a Sant’Anastasia, ad Afragola e a Qualiano, uno a Somma, due a Pomigliano d’Arco, ad Arzano, a Casoria, a Casalnuovo e a Sant’Arpino.
Tutti i mulini della Provincia aveano, sempre nel 1872, 639 palmenti (macina costituita da due blocchi di pietra) e 252 contatori (contatore meccanico che conteggiava i giri effettuati dalla ruota macinatrice per calcolo della tassa)
.

Il Palio settembrino con i suoi giochi rappresenta ormai per i cittadini Sommesi un’occasione di forte aggregazione e di riscoperta delle proprie tradizioni storiche: uno dei momenti più qualificanti della nostra vita sociale. Una festa comunitaria di recente istituzione, una nuova forma di cultura popolare che spazia a tutto campo dalla musica, all’artigianato, fino alla valorizzazione del territorio con i suoi prodotti tipici.

Somma Vesuviana ha avuto pure una lunga tradizione bandistica: già nel 1871, infatti, la città disponeva di una fanfara municipale composta da 19 elementi e diretta dal maestro Francesco Brunelli (1821 – 1894), nominato con delibera del Consiglio Comunale del 29 dicembre 1867. Nel napoletano – come riferisce il prof. Mimmo Parisi – era il complesso musicale che vantava la più lunga tradizione, essendo stato istituito già nel 1847 da tale Vincenzo Casillo e avendo preceduto di molti anni quella di Casalnuovo con il Maestro Direttore De Stefano Luigi (1857), Sant’Anastasia con il M° De Luca Luigi (1864) e Portici con il M° Pecoraro Pasquale (1871).
Il 14 luglio 1881, dopo ben sedici anni di attività, il maestro Brunelli Francesco fu collocato a riposo e nello stesso anno il 31 ottobre il Consiglio Comunale nominò, con dodici voti favorevoli, il nuovo maestro nella persona del sig. Pellegrino Giuseppe con lo stipendio mensile di Lire 25. Era il 1927 quando il Dott. Alberto Angrisani, divenuto Podestà di Somma Vesuviana, soppresse con atto deliberativo dell’11 luglio la banda musicale comunale, la scuola di musica e il posto di maestro per diminuire le spese del Comune.

La consultazione dell’Annuario Detken – Guida Amministrativa, Commerciale, Industriale e Professionale della Città e Provincia di Napoli (1913-14), ha consentito di rilevare i dati relativi alla Città di Somma Vesuviana, relativi all’Amministrazione, alle professioni, alle chiese, alle confraternite, al commercio e così via.
Collegio elettorale uninominale
(Deputato: Gargiulo avv. Roberto).
(Napoli, Sezione S. Carlo all’Arena).
Diocesi di Nola
Popolazione 10167 abitanti.
Superficie: Ett. 2159,8.
AMMINISTRAZIONE CITTADINA
Sindaco: Troianiello Cav. Michele;
Giunta: Monti prof. Carlo, assessore delegato;
Assessori ordinarii: Iovino avv. Giuseppe, De Stefano avv. Francesco, Romano Alfonso;
Assessori supplenti: Terracciano Sac. Giuseppe, Troianiello Gerardo;
Consiglieri: Sepe Michele, D’Avino Baldassarre, Feola Federico, Romano Agostino, Di Sarno Giuseppe, De Felice avv. Andrea, Angrisani dott. Alberto, Lamagna Filippo, Feola Ignazio, Buscemi avv. Rosario, Feola Raffaele, Cimmino avv. Vincenzo, Romano Luigi, Mazzuca avv. Giacinto, Indolfi Michele, De Falco Tommaso, Mosca Gennaro, Giova Vincenzo, De Curtis Camillo, Napoletano Vincenzo, De Torres Valentino, De Siervo cav. Giulio.
CHIESE
Chiesa parrocchiale sotto il titolo di S. Giorgio – Parroco Sac. Giuseppe Perna;
Chiesa parrocchiale sotto il titolo di S. Pietro – Parroco Rev. Allocca Francesco;
Chiesa parrocchiale sotto il titolo di S. M. Arcangelo – Parroco Calabrese Luigi;
Chiesa parrocchiale sotto il titolo di S. Croce – Parroco Rev. Caliendo Francesco;
Chiesa comunale di S. Domenico – Rettore Padre Giovanni di S. Maria;
Chiesa sotto il titolo di S. Maria del Pozzo – Rettore P. Angelico da Lauro.
CIRCOLI
Circolo Enrico Giova – Avv. Comm. Paolino Angrisani: presidente onorario.
COMMERCIANTI E INDUSTRIALI
Frutta: D’Avino Baldassarre, Mosca Gennaro, Piccolo Pasquale, Troianiello Achille, Giuliano Michele, Polise Giovanni, Romano Luigi, De Stefano Antonio, D’Avino Antonio, Romano Raffaele, Mosca Mario, Aliperta Vincenzo, Romano Alfonso;
Liquori: Mastroianni Pasquale, Pellegrino Vincenzo, Calvanese Pasquale, Sorrentino Pasquale;
Paste alimentari e pizzicagnoli (negozi): Esposito Francesco, De Vita Francesco, Auriemma Gennaro, Sorrentino Gennaro, Risi Caterina, Molaro Gennaro;
Vini (negozi): Casolaro Vincenzo, Pellegrino Giuseppe, Iovino Ludovico;
Vini (produttori): De Siervo fratelli, Manzi fratelli, Troianiello cav. Michele, Pontillo Giacomo.
COMMISSIONE EDILIZIA
Presidente: Il Sindaco;
Componenti: Giova cav. Vincenzo, Iovino avv. Giuseppe, Del Giudice ing. Vladimiro.
COMMISSIONE DI RICCHEZZA MOBILE
Presidente: De Curtis Marchese Camillo;
Componenti: De Felice Andrea, Cimmino avv. Vincenzo, Napoletano Vincenzo.
CONCILIAZIONE
Conciliatore: Marchese Camillo De Curtis;
Vice Conciliatore: De Felice Avv. Andrea;
Cancelliere: Avv. Antonone Riccardo.
CONGREGA DI CARITÀ
Presidente: Raia Michelangelo;
Componenti: Risi Aniello, Perna Salvatore, Romano Agostino, Feola Ignazio, Feola Raffaele, Sepe Michele, De Stefano Luigi.
CONGREGHE
Congrega di S. Caterina: Superiore Napolitano Vincenzo;
Pio Laicale Monte della Morte: Superiore Cav. Colonnello Luigi Cocchiglia;
Congrega di S. Maria dei Battenti: Superiore Avv. Cimmino Vincenzo;
Congrega SS. Corpo di Cristo: Aliperta Giuseppe;
Congrega SS. Rosario: Feola Ignazio, superiore;
Congrega S. Maria della Libera: Granata Gennaro, superiore;
Congrega S. Maria della Neve: D’Avino Baldassarre, superiore;
Congrega Immacolata Concezione: Piccolo Pasquale, superiore.
IMPIEGATI MUNICIPALI
Segretario: Avv. Antonone Riccardo;
Vice Segretario: Rag. Perna Francesco;
Applicati: Ragosta Vincenzo, D’Avino Vincenzo, Giova Luciano, Rosa Romano.
INSEGNANTI MUNICIPALI
Direttore didattico: Angrisani Gaetano;
Maestri: Arpaia Antonio, Natale Pellegrino;
Maestre: Angrisani Rosa, Angrisani Teresa, Darley Matilde, Elefante Ester, Raia Maria, Casillo Emilia , Maffezzoli Maddalena , Ragosta Lucia, De Paolis Elvira, Romano Concetta, Sarno Margherita, Califano Ermanuela, Casolaro Maria.
ISTITUTI, CONVITTI, SCUOLE, Ecc.
Istituto privato infantile, diretto dalle Figlie della Carità;
Istituto infantile municipale per maschi, sotto il titolo Principe di Napoli;
Istituto infantile municipale per le bambine, sotto il titolo Principessa Elena.
PRETURA MANDAMENTALE
Pretore: Cioffi Alfredo;
Vice Pretore: Restaino Canio, notaio;
Cancelliere: Vivoli S.;
Usciere: Riccio Roberto.
PROFESSIONISTI
Avvocati e Procuratori: Angrisani comm. Paolino, Arpaja Antonio, Cimmino Vincenzo, De Stefano Francesco, Casillo Carlo;
Farmacisti: Angrisani dott. Alberto, Conforti Luigi;
Ingegnere: Del Giudice Enrico;
Levatrice: Capasso Concetta;
Medici e Chirurgi: Angrisani Francesco, Scozio Giuseppe, Troianiello Biagio, Angrisani Alberto, Cimmino Domenico;
Notai: Restaino Canio.
POSTE E TELEGRAFI (2. cl. L. e F.)
Titolare: Angrisani Almerinda.

Nel 1933 il cav. Aniello De Mattia, segretario municipale di Somma Vesuviana, su richiesta della Casa editrice dell’Annuario generale d’Italia, guida generale del Regno, compilò una statistica che fotografava la situazione socio-economica della nostra città in base ai dati ufficiali in suo possesso.
Il governo della nostra città, che all’epoca contava 12.604 abitanti, era in mano al podestà prof. Valdimiro Del Giudice; il cav. avv. Andrea De Felice era il conciliatore; il magazzino delle privative (il monopolio del tabacco, sale e chinino) non era più all’ appannaggio del tradizionale magazziniere Errico Giova, ma gestito direttamente da un maresciallo della Guardia di Finanza.
L’istruzione, tra educandati, scuole pubbliche e collegi privati, poteva contare su otto plessi di scuola elementare e sull’asilo infantile di beneficenza Regina Elena, una biblioteca popolare, un teatro, la cosiddetta Sala Raimondi e il cinematografo Vesuvio.
Le professioni e i mestieri regolarmente censiti erano i seguenti:
Armaioli: Prisco Domenico, Pellegrino Natale, Prisco Cesare e Stefano;
Avvocati: Angrisani Paolino, Restaino Paolo, Cimmino Vincenzo, Iovino Giuseppe;
Fabbricanti di botti da vino: Perna Salvatore, Torino Antonio;
Caffettieri: Esposito Domenico, Calvanese Adolfo (che era anche l’unico pasticciere), D’Avino Gennaro, D’Avino Antonio, Capasso Gerardo;
Calzolai: Pone Amedeo, Muoio Vincenzo, Sodano Ciro, Iossa Pasquale, Vitagliano Vincenzo;
Carpentieri: Romano Giuseppe, Pappalardo Vincenzo, Annunziata Andrea;
Costruttori edili: De Stefano Cesare e f.lli, Sorrentino Domenico, Indolfi Vincenzo, Angrisani Vincenzo;
Elettricisti: Angrisani Vincenzo, Luongo Ernesto;
Fabbri: Calvanese Michele e f.lli;
Falegnami: Bianco Antonio, Telemaco Giuseppe;
Farmacisti: Angrisani Alberto, Sorelle Angrisani;
Fruttivendoli: F.lli D’Avino, Giuliano Michele, Mosca Tommaso, Romano Luigi, Troianiello Luigi, Capasso Vincenzo, D’Avino Antonio;
Negozi di generi alimentari: Auriemma S., D’Avino Aniello, Jovino Michele, Mocerino Michele, Rippa Mariano, Romano Enrico, Secondulfo Vincenzo, Sorrentino Gennaro, Angrisani Vincenzo;
Ingegneri: Maffezzoli Alfonso;
Negozi di legname: Lo Sapio Salvatore, Raia Luigi, Caputo Angelo;
Levatrici: Sirico Assunta, Naddeo Luisa;
Macellai: Auriemma Alfonso, Auriemma e Russo, Russo Gaetano;
Mediatori: Cimmino Giuseppe, Granata Pasquale, Romano Vincenzo;
Medici Chirurghi: Scozio Giuseppe Troianiello Biagio;
Merciai: Capasso Angela, Granato S., Marigliano Giovanni, Naddeo e Angrisani, Ragosta Anna; Produzione miele: Vedova Picone;
Oculisti: Cimmino Domenico (ufficiale sanitario);
Orefici: Pone Salvatore;
Panettieri: Muoio Michele, Romano Francesco, Landolfi Anna, Raia Giuseppina;
Parrucchieri e barbieri : Scognamiglio Massimo, Capasso Camillo, Corrivetti Ferdinando;
Negozi di paste alimentari: De Vita Francesco, De Vita Luigi, Raia Francesco;
Pizzicagnoli: De Vita Francesco, Rea Giuseppe;
Ragionieri: Di Falco Tommaso, D’Avino Vincenzo;
Sarti: Barone Mario, Caputo Vincenzo, Sodano Vincenzo, Sodano Giorgio;
Negozi di tessuti: Sodano Salvatore, De Martino Luigi;
Negozi di vini: Perna Salvatore, Di Sarno Pasquale, Torino Antonio, Cimmino Giuseppe, Granato Pasquale;
Produttori di vini: F.lli De Siervo, F.lli Mansi, eredi Troianiello Michele, Granato Gennaro, Piccolo Felice e figlio.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con decreto del 19 settembre 2012, su proposta del Ministero dell’Interno, ha concesso al Comune di Somma Vesuviana il titolo di Città, benché il 5 agosto 1752 Re Carlo di Borbone, con dispaccio della Real Segreteria per gli Affari Ecclesiastici ordinava alla Curia Nolana di dare a Somma il titolo di Città, che ab antiquo lo era stato sempre dato dalla Maestà del Principe e dalla Regal Camera di Santa Chiara (Alberto Angrisani, Brevi notizie storiche e demografiche intorno alla Città di Somma…Napoli, 1928).Lo storico Giansefano Remondini nello stesso periodo ci confermava nella sua Della Nolana Ecclesiastica Storia che …E sebben quest’Autore (Giovan Villani) la chiama Castello, si vanta nulla dimanco dell’onorevol titolo di Città, e n’alza corona su l’impresa; e tal chiamata viene da pressochè tutti gli Scrittori, e distintamente dal Pacichelli nella descrizione del Regno, da Andrea Persico nella Dedicatoria alle Decisioni della Summaria, da Antonio Police delle preminenze delle Regie Udienze ragionando, da Francesco Gonzaga nell’origine della Religione Serafica, e dal Magini nella corretta Geografia di Tolomeo, ove scrisse: Senza Napoli son’ anche in Campania, o Campagna, dell’altre Città chiare, come Teano, Calvo, Aversa, Caserta, S.Agata, Nola, e Somma, e così è nominata in infinite scritture, e Reali privilegi, dispacci, e patenti…

Una curiosità: nel 1937, ricorrendo il bimillenario della nascita dell’Imperatore Augusto, sui giornali napoletani dell’epoca prese avvio una breve, ma consistente, campagna di stampa, affinché Ottajano si chiamasse Ottaviano e Somma Vesuviana Summa Villa. Il tentativo riuscì solo a metà; infatti, da lì a poco, Ottajano effettivamente mutò la sua denominazione in Ottaviano, ma Somma riuscì ad evitare il secondo cambiamento toponomastico della sua storia! (cit. D. Parisi)

Somma Vesuviana, attualmente, è la città capofila dei sei comuni dell’area vesuviana per la gestione finanziaria e amministrativa del Piano di Zona in Ambito Sociale, ponendosi come collegamento logistico – amministrativo con la Città Metropolitana e la Regione Campania.


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